Bitcoin footprint

Perchè il boom della moneta virtuale sta facendo male all'ambiente e chi sta provando a mettere rimedio

Avrai sentito parlare del Bitcoin, una criptomoneta che ha avuto un impressionante boom in quest’ultimo anno e vale sei volte oggi quello che era 12 mesi fa, diciamo che viaggia intorno ai 50mila euro (per 1 Bitcoin). Ma il suo costo più alto è quello ambientale.

Ecco la Bitcoin footprint secondo il sito Digiconomist.

Ciò non vale solo per il Bitcoin, ma per tutte le criptovalute, qualcosa che la maggior parte delle persone stenta a capire cosa siano, anche perché non hanno una loro materialità, ma sono solo digitali. Di certo sono entrate nel sistema finanziario, sono oggetto di scambio e di investimento da parte di speculatori, ma anche di banche, investitori, risparmiatori.

Cos’è la criptovaluta?

La criptovaluta, o moneta virtuale, a differenza delle valute tradizionali come il dollaro o l’euro che sono emesse da banche centrali e si basano sulla fiducia nei governi, si basa su una tecnologia chiamata blockchain (un database, o libro mastro digitale decentralizzato) protetto da sofisticati strumenti crittografici. La prima criptovaluta è stata il Bitcoin, rilasciato nel 2009, e oggi ci sono diverse migliaia di criptovalute disponibili. Il Bitcoin è ancora di gran lunga la più importante; il valore totale di tutti i bitcoin ora esistenti è di circa 1,2 trilioni di dollari. Sono, in definitiva, un bene completamente digitale (nascono, vivono e sono custodite elettronicamente), e non hanno un controvalore nell’economia reale. Secondo la Banca d’Italia sono un bene speculativo altamente rischioso. Proprio Mario Draghi disse: “Bitcoin o qualcosa del genere non sono davvero valute, sono beni. Un euro è un euro: oggi, domani, tra un mese, è sempre un euro”. (fonte: L‘economia per tutti) Bitcoin e qualche altra moneta digitale sono tuttavia oggi accettate in diversi contesti come sistema di pagamento. Per capire perché è un bene speculativo (ma altamente rischioso) basti pensare che quando è nato ci volevano circa 1,300 bitcoin per fare un dollaro; nel 2013 1 BTC ha raggiunto la quotazione di mille dollari per la prima volta; dall’8 febbraio 2021, dopo l’acquisto da parte di Tesla di bitcoin per un miliardo e mezzo di dollari, ha raggiunto il suo valore storico più alto superando i 50.000$.

Oltre a non essere pienamenti compresi come tecnologia se non dagli addetti ai lavori, poco noto è quanta elettricità sia necessaria per alimentare la rete Bitcoin e delle altre crypto. Il sito di Visual Capitalist, sulla base di dati dell’Università di Cambridge, ha messo a confronto questi consumi con quelli generali di alcune nazioni, città e aziende, tanto per dare un’idea. Ebbene la sola rete Bitcoin richiede poco più di quanto necessario annualmente alla Norvegia, per esempio, ovvero 129 terawattora.

Secondo l’Università di Cambridge l’energia utilizzata per ‘estrarre’ bitcoin potrebbe alimentare tutti i bollitori del Regno Unito per 27 anni e soddisfare il fabbisogno energetico della stessa università per 802 anni.

Come funzionano i Bitcoin (e perché inquinano tanto)

Tutto il meccanismo della blockchain e delle criptovalute è piuttosto complesso. Per quanto riguarda i Bitcoin, in estrema sintesi, il consumo di energia che richiedono e che è alla base del loro inquinamento è direttamente collegato a come viene ‘prodotto’, un’attività che in gergo si chiama mining (letteralmente sarebbe l’estrazione mineraria), realizzata su internet da persone un po’ esperte, che mettono a disposizione della rete la potenza di calcolo del proprio computer (o delle fabbriche, come vedremo oltre) per eseguire un insieme di puzzle matematici e ottenere come ricompensa bitcoin. Esistono oggi dei dispositivi e dei software appositi per fare queste operazioni che rischierebbero di fondere letteralmente un comune computer e che utilizzano tantissima energia. (leggi di più qui)

Il Bitcoin è nato nel 2009 in un modo ancora oggi avvolto nel mistero, ad opera di un anonimo inventore (o gruppo di inventori, ancora non si sa), noto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto. Il valore del bitcoin si basa sul fatto che ce ne sia sin dall’origine una riserva, cioè un numero preciso (21 milioni) oltre il quale non si può andare. Non tutti i bitcoin sono stati messi in circolazione contemporaneamente, perchè bisogna ‘guardagnarseli’, con l’attività di mining. Ogni giorni vengono estratti circa 900 nuovi bitcoin, fino a oggi circa il 90% dei bitcoin sono già stati estratti.

Ora, l’estrazione di bitcoin, per quanto resa costantemente più efficiente, ha ancora un grande impatto in termini di richiesta energetica, di conseguente CO2 prodotta (non tutta l’energia è prodotta da rinnovabili) e persino in termini di e-waste, cioè i rifiuti di apparecchiature elettroniche.

Ovviamente, più il valore del bitcoin sale, più fa gola a chi fa attività di mining, determinando un’impennata anche nell’impatto ambientale.

Cio’ sta facendo emergere il problema della sostenibilità ambientale delle criptovalute, che si esprime anche nel metterle a confronto proprio su questo tema. Per esempio, secondo Alex de Vries, ricercatore fondatore di Digiconomist, la rete Bitcoin è decisamente molto più impattante delle altre criptovalute, e potrebbe consumare tanta energia quanto tutti i data center a livello globale. Nella tabella che segue, il confronto con Ethereum, la seconda più importante moneta virtuale, è impressionante.

Il problema si fa ancora più pressante se si pensa che la quantità delle criptocurrency (monete virtuali) che nascono continuamente è altissimo (secondo alcuni almeno 4000, secondo altri addirittura 7500), anche se circa l’80% del mercato appartiene a 5 di esse (Bitcoin, Ethereum, XRP, Tether and Litecoin).

Ci sarà spazio per delle criptovalute più green?

C’è chi ci prova, per esempio si è appena affacciata sul mercato la nuova criptovaluta chiamata Chia, che si propone come più affidabile di altre criptovalute e anche più rispettosa dell’ambiente perché anziché sfruttare la capacità di calcolo del computer (energivora) sfrutta lo spazio di archiviazione del computer stesso.

Ma se la soluzione fosse da un’altra parte?

Le fabbriche di bitcoin

L’estrazione di bitcoin è oggi non tanto nelle mani di singoli, ma di vere e proprie fabbriche, perché servono computer più potenti, energia e capitali. Nelle fasi iniziali dello sviluppo del Bitcoin, i minatori utilizzavano i comuni computer da casa per gestire le loro operazioni, ma con l’andare del tempo il sistema è diventato più complesso e la competizione tra minatori più elevata richiedendo maggiori risorse tecniche. Sono nate così le mining farm, delle strutture equipaggiate con tutte le apparecchiature necessarie a estrarre bitcoin o altre criptovalute. Le più grandi mining farm del mondo sono in posti segreti per non essere danneggiate o distrutte e si trovano in Cina, Russia, Islanda.

La fabbrica di Bitcoin più grande al mondo potrebbe essere quella di Bitmain Technologies, nella Mongolia interna, riporta questo studio. La miniera consiste di 8 edifici e 25.000 macchine di estrazione in totale. Sette edifici, contenenti 21.000 di queste macchine, sono utilizzati per il mining di Bitcoin. L’edificio rimanente, con 4.000 macchine, è dedicato al mining di Litecoin. Le 21.000 macchine di estrazione di Bitcoin rappresentano “quasi il 4% della potenza di elaborazione nella rete globale di Bitcoin” al momento, e insieme alle macchine di estrazione di Litecoin la miniera genera circa 250.000 dollari di entrate al giorno. Le macchine da mining sono alimentate con l’elettricità proveniente per lo più dalle vicine centrali a carbone, e costano solo quattro centesimi per chilowattora dopo uno sconto del 30% da parte del governo locale. In cambio di questo sconto, il profitto della miniera viene tassato. La bolletta elettrica totale giornaliera ammonta a circa 39.000 dollari, il che significa che la struttura consuma circa 40 megawatt di elettricità all’ora.

Se l’energia elettrica usata dalle fabbriche di bitcoin provenisse al 100% da fonti rinnovabili, in realtà buona parte del problema ambientale sarebbe risolto. Ma attualmente, il 61% dell’energia utilizzata per il mining nel mondo proviene da fonti fossili.

Un bell’esempio ci arriva proprio dall’Italia, dalla verdissima Umbria, dove una giovane società ha creato Mining Farm Italia, una struttura che offre una tecnologia verde per il mining grazie a un impianto di oltre 350.000 KW annui alimentato da energie rinnovabili. In pratica una persona che vuole dedicarsi al mining di criptomonete, invece che comprare costoso hardware e pagare bollette salate, magari da provider non green, può acquistare un abbonamento che comprende già tutto: la potenza di calcolo, il costo energetico, la manutenzione, e tutto quello che può riguardare il fattore tecnico.

Rimane il problema dei rifiuti elettronici

Le fabbriche di bitcoin sono magazzini pieni di hardware specializzato noto come ASIC (Application Specific Integrated Circuits). Poiché la maggior parte dei costi di mining proviene dall’energia per far funzionare queste unità, per evitare di sprecare energia, gli ASIC vengono sostituiti frequentemente con modelli più nuovi ed efficienti. Una volta dismessi, gli ASIC non possono essere facilmente riutilizzati per l’informatica generale. Le unità in esubero creano circa 11.500 tonnellate di rifiuti elettronici pericolosi ogni anno, molti dei quali vengono scaricati nelle città del sud del mondo.

Conclusione

Come dimostrano il minore impatto ambientale di Ethereum, la nuova cripto Chia e la Mining Farm Italia, esiste una via più verde alla criptovaluta, che dovrebbe comprendere anche una maggiore trasparenza sugli elementi di sostenibilità a 360° di tutte le criptovalute, che hanno diverse zone d’ombra. Al di là del Bitcoin c’è un valore da salvaguardare che è la tecnologia sottostante, la blockchain.