TRE ROSE NERE NEL DESERTO DEL RAZZISMO

L’ultimo sogno della notte si è appena spento, perfettamente sincronizzato con la sveglia posizionata sul comodino a fianco del letto. Moussa non apre ancora gli occhi, forse per convincersi che il giorno non è ancora arrivato. La sveglia ha acceso subito la sua mente e mille pensieri si sono rincorsi sotto quelle lenzuola calde. È il giorno del debutto, il giorno in cui per la prima volta indosserà quella maglia verde e bianca, con pantaloncini neri, il giorno in cui giocherà il suo primo match di rugby, militando con le Tre Rose Nere.

[Parentesi – Le Tre Rose Nere Rugby sono una squadra che milita nella Serie C italiana ed è una squadra unica nel suo genere. Squadra storica di Casale Monferrato, nel 2015 sono in crisi, hanno pochi giocatori e il futuro è a rischio. Ed è nel 2015 che nasce l’incontro tra Paolo Pansa, presidente del club, e Mirella Ruo, responsabile della cooperativa Senape che da diversi anni è  impegnata in progetti di accoglienza per migranti. Nella squadra entrano tre ragazzi ghanesi, cui poi si aggiunge uno del Sudan. Oggi le Tre Rose Nere sono formate per il 90% da migranti, collabora a stretto contatto con la cooperativa e con altre associazioni del territorio e dà ai ragazzi la possibilità di allenarsi e giocare, di integrarsi grazie allo sport]

Moussa apre gli occhi un attimo, fissa il soffitto, poi decide di concedersi altri cinque minuti. Le palpebre si richiudono, mentre i pensieri tornano a correre. Tre mesi. Sì, tre mesi sono quelli in cui si è allenato ogni giorno per arrivare fin qui. 94 giorni, per essere precisi. Allenamenti duri, spesso insopportabili, giornate dove voleva mollare tutto, arrendersi, ammettere che non sarebbe mai arrivato fin qui. Non è facile quando sei un ragazzino, quando la tua meta appare lontanissima, inarrivabile e ogni mattina devi trovare la forza di continuare, di andare avanti.

Tre mesi infernali. Non può definirli altrimenti. Ogni giorno la sveglia prima dell’alba, attorno alle 4 di notte. Perché fa troppo caldo di giorno, il sole spacca le pietre e ti blocca le gambe. Così, ci si alza prestissimo, mentre il resto del mondo dorme. Si esce e si inizia. L’allenamento è sempre lo stesso. Alcuni chilometri di corsa, alternati ad altrettanti camminando, per recuperare le energie. Poi, sempre senza restare fermi, ci si passa quello che dovrebbe essere un pallone. Un passaggio e poi dritti, portando quel peso tra le mani, prima di passarlo nuovamente a un compagno.

Ogni giorno, dalle 4 di notte alle 11/12, quando il sole inizia a picchiare troppo e ci si deve fermare. Per il pranzo. Ma anche qui, sofferenza. Sì, perché la dieta è ferrea e non si sgarra. Un pranzo frugale, fatto soprattutto di carboidrati, ma senza esagerare. Si mangia in fretta per la fame, si beve qualche sorso d’acqua, poi è il momento del riposo. Un paio d’ore di sonno, se riesce ad addormentarti, poi verso le 16, quando il sole inizia a essere più clemente, la seconda sessione d’allenamento. Ancora chilometri a piedi, camminando o correndo, più camminando però. Senza vedere la meta. Sembra di correre in tondo, la voglia di fermarsi e dire basta che aumenta a ogni passo. Ma non si può, si deve andare avanti. Ed è così ogni giorno. O quasi.

Sì, perché avvicinandosi alla partita ci sono anche i piccoli raduni. 10/14 giorni in cui si va in una struttura blindata, lontana dagli occhi indiscreti della gente. Qui l’allenamento è meno duro, non si cammina per chilometri e chilometri, ma le giornate non sono più leggere. I professionisti lo chiamano il lavoro in palestra, ma per Moussa è solo una nuova forma di tortura. Chiuso in una stanza spoglia per ore solleva pesi sotto lo sguardo arcigno dell’allenatore. Degli allenatori. Che ogni tanto cambiano, sono nuovi, ma gli esercizi no, quelli restano gli stessi. Giorno dopo giorno, ora dopo ora. E se sgarri sono guai. Moussa lo sa e non ha mai sbagliato. E quando finisce il raduno riprendono gli allenamenti. Chilometro dopo chilometro, sognando di arrivare alla meta.

Dalla pagina Facebook delle Tre Rose Nere – https://www.facebook.com/trerosenere/photos

Moussa ci ripensa mentre è lì, con gli occhi chiusi nel letto. Nonostante i ricordi non siano felici sulle sue labbra si forma un sorriso. No, è vero, era convinto che non ce l’avrebbe fatta. Era convinto che avrebbe rinunciato, che si sarebbe arreso. Come hanno fatto tanti suoi compagni prima di lui, come hanno fatto tanti suoi compagni mentre erano lì con lui, come faranno tanti suoi compagni dopo di lui. Diventare un giocatore di rugby non è facile, lo sa. Allenamenti estenuanti lo hanno accompagnato negli ultimi mesi, con la consapevolezza che non potesse tornare indietro, che arrendersi non era tra le opzioni possibili. Ma ce l’ha fatta. Ora è lì.

Ora aprirà gli occhi, si alzerà dal letto, una colazione ricca, poi la doccia. Si vestirà, con quella divisa che ha sognato per mesi. Moussa apre gli occhi. Guarda il soffitto della sua stanza. Un velo di tristezza e consapevolezza. Un attimo. Gli occhi si richiudono. No, non prendiamoci in giro. Non raccontiamo una storia che non è. Nessun allenamento. Nessuna dieta. Nessun raduno. No, la strada che ha portato Moussa sul campo da rugby non è quella di un normale atleta. Si è raccontato una favola. Perché la verità fa male, anche se ormai è alle sue spalle.

Altro che allenamenti, altro che dieta. Moussa è nato nel Mali. Un Paese da sempre in guerra e dove negli ultimi anni gli scontri sono aumentati, tra colpi di Stato e pulizie etniche. Moussa andava al college, ma un giorno di quasi un anno fa i ribelli sono entrati a forza in casa sua. Hanno ucciso i suoi genitori, hanno abusato di sua sorella davanti ai suoi occhi prima di ammazzarla. Lui è riuscito a scappare, sapendo che quella non era più casa sua e che quello non era più il suo Paese. Altro che allenamenti, da quel giorno è iniziata la sua fuga. Lunghe camminate nel deserto, di notte, quando il sole non ti uccide. Passaggi su mezzi di fortuna, quando andava bene, razionando i viveri. Pochissimi. Dal Mali si è spostato nel Niger, ancora giorni e settimane a piedi, senza sapere dove andare.

Dal Niger ha superato il confine con il Ciad, sperava di fermarsi lì, di trovare lavoro. Ma non è facile, il Paese è da anni in guerra con il Sudan, l’economia non decolla, il lavoro non c’è. E Moussa cammina, di nuovo. Fino in Libia. E qui scopre cosa sia il razzismo. No, non quello dei bianchi contro i neri, ma quelli dei “poco neri” contro i “negri negri”, come dice lui a chi gli chiede di raccontare la sua storia. Perché i libici odiano chi ha una pelle scura. Moussa viene picchiato, viene arrestato, anche se non ha fatto nulla. Poi il campo di prigionia. Mentre sente di quei fortunati saliti sui barconi e sbarcati in Italia. Lo vuole anche lui. Ma non ha i soldi. Il passaggio costa tantissimo, non può permetterselo.

Ma non vuole rinunciare, non vuole morire in un Paese che non lo vuole. Una sera va in spiaggia, ha saputo che un barcone partirà da lì per portare 20 disperati in Italia. 20 che hanno pagato, ma su quella spiaggia Moussa scopre che sono decine gli uomini, le donne, i ragazzi e i bambini che aspettano. Quando la barca appare è una corsa folle. Tutti si buttano in acqua, nuotano, corrono, si spintonano, si affogano, arrivano al barcone. Che non può imbarcare più di 20 persone, ma a salire sono in 50, forse 60. C’è anche Moussa. Assiepati, in balia delle onde, senza cibo né acqua. Per giorni. E Moussa è schiacciato tra quei corpi mentre si sente giorno dopo giorno più debole. A volte delira, a volte si addormenta per ore. Perde i sensi, si risveglia. Si riaddormenta. Sente le voci attorno a sé. “È morto, guardatelo” sente. “Buttiamolo in mare, ci sarà più spazio per noi” dicono. Parlano di lui, lo capisce, ma non ha la forza di reagire. Ha già visto altri disperati venir gettati in acqua. Morti. Forse. Ora è il suo turno. “No, respira, non toccatelo” sente. Poi più nulla. Sviene. Si risveglia giorni dopo, in una camera d’ospedale. Il dottore ha detto che un altro giorno in mare e sarebbe morto. È stato fortunato. Lo dimetteranno presto.

Sì, questa è la sua storia. Quella vera. Non quella che si è raccontato a occhi chiusi. Niente allenamenti, niente diete, niente raduni. Lui neanche sapeva cosa fosse il rugby, lui neanche sapeva che un pallone potesse essere ovale e non tondo. Fino a quando è arrivato qui. Fino a quando la comunità dove vive, dove sta studiando l’italiano in attesa del permesso di soggiorno non gli ha proposto di giocare. Di allenarsi. Questa volta davvero. In una squadra dove militano solo migranti, come lui. Moussa apre gli occhi. È il giorno dell’esordio, oggi sarà la prima partita della sua vita. Della sua nuova vita. E lui è pronto.

[Parentesi – La Federazione Italiana Rugby ha concesso delle deroghe alle regole Federali, che normalmente limitano la presenza di giocatori stranieri nelle squadre, assegnando a tutti i richiedenti asilo la formazione Italiana. Queste deroghe hanno permesso l’esistenza ufficiale di squadre composte soltanto da richiedenti asilo o squadre miste, ovvero formate da richiedenti asilo e atleti italiani. Le Tre Rose Nere di Casale Monferrato e la 2° squadra di Varese – la prima composta essenzialmente da migranti richiedenti asilo, la seconda squadra mista – partecipano al Campionato Italiano di Serie C; il Rugby Valledora, giovane e attiva realtà di ragazzi migranti e il ‘’Progetto Invictus’’, dedicato all’inserimento dei migranti richiedenti asilo nel mondo del rugby. Inoltre alcune società hanno partecipato al Bando per il Progetto promosso dal Ministero dell’Interno e dal CONI per favorire, attraverso lo sport, l’inclusione e l’integrazione dei giovani migranti di minore età sul nostro territorio, durante la loro permanenza nel sistema di accoglienza nazionale, che potranno praticare attività sportive presso le società del territorio, insieme ai coetanei italiani.]

Un’immagine delle Tre Rose Nere dalla pagina Facebook – https://www.facebook.com/trerosenere/photos