Quando si parla di discriminazione, uno dei rischi che si corrono è quello di assumere una prospettiva unidirezionale, semplificando il problema in schemi predefiniti. Questo è qualcosa che ci capita di fare quotidianamente, dimenticando invece che ogni persona è un individuo a se stante, che non rientra in una sola categoria. Ragionare, invece, ampliando gli schemi ha un nome specifico e si chiama intersezionalità. Ma di cosa parliamo?
Cosa vuol dire intersezionalità
Con il termine intersezionalità si indica la sovrapposizione, o appunto intersezione, di diverse identità sociali. Concetti come razza, sesso, disabilità od orientamento sessuale e identità di genere non possono venir visti come a se stanti, spesso si sovrappongono tra loro, perché le persone non rientrano in un’unica categoria sociale e allo stesso modo le discriminazioni si confondono su diversi livelli. Così, per fare un esempio pratico, quando si parla di “diritti delle donne” si parte dal concetto che tutte le donne siano uguali. Ma una donna vive in un ambiente socioculturale diverso da un’altra, una donna può avere identità e orientamenti sessuali differenti, o essere bianca o nera. A questo punto, è evidente che il concetto di sessismo si va a intersecare potenzialmente anche con quello di omofobia o razzismo, così come capita che vittime di una discriminazione si ritrovino esse stesse a discriminare altre categorie senza cogliere la tragica ironia delle loro azioni. Proprio questa intersezionalità rende ancora più complicato lottare contro le diseguaglianze e proprio per questo ragionare sul concetto di intersezionalità è fondamentale per comprendere a fondo le differenze sociali e affrontarle in maniera coerente.
Perché non si può prescindere dall’intersezionalità
Come detto, troppo spesso ragioniamo in maniera unidirezionale e spesso finiamo per scontrarci con questa realtà. La politica italiana lo ha dimostrato poche settimane fa, quando doveva eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Da più parti, alla vigilia del voto, uno degli slogan più utilizzati è stato quello che vedeva la scelta migliore l’elezione di una donna, che nel 2022 l’Italia fosse pronta a una Presidentessa della Repubblica. Ma in aula questo slogan si è scontrato frontalmente con la realtà. Le donne non sono una categoria univoca, non sono tutte uguali, non rappresentano tutte gli stessi valori e le stesse idee. E, così, ecco che quando dal concetto unidirezionale di “donna” si è passati a fare dei nomi concreti si è visto fattivamente cosa significhi intersezionalità. E come da questo concetto non si possa prescindere.
Parlando di discriminazioni, prescindere dall’intersezionalità significa non vedere due questioni fondamentali e diametralmente opposte, seppur identiche. Da un lato, infatti, l’oppressione di determinate categorie umane si moltiplica nel momento che concetti come classismo, sessismo, razzismo od omofobia si mischiano. Dall’altro, la lotta alle discriminazioni perde forza nel momento in cui determinate categorie affrontano l’oppressione solo guardando alle proprie priorità, ignorando le problematiche legate ad altre categorie che si intrinsecano con la loro. “Quando le donne di colore hanno criticato il razzismo all’interno della società nel suo complesso richiamando l’attenzione sui modi in cui il razzismo ha plasmato e influenzato la teoria e la pratica femministe, molte donne bianche semplicemente hanno voltato le spalle alla prospettiva della sorellanza” si legge in un testo degli anni ’70 di un collettivo di femministe lesbiche nere di Boston.
Zendaya e quel sogno di portare l’intersezionalità al cinema
Come si vede, spesso l’intersezionalità è invisibile, non viene percepita e diverse conquiste delle cosiddette “minoranze” sono in realtà conquiste di una minoranza della minoranza. Per diversi motivi. Una delle conquiste degli ultimi anni è stata quella di sdoganare l’omosessualità sia sul grande schermo sia nelle serie tv. Oggi dei protagonisti gay, o le relazioni omosessuali non sono più off limits al cinema, né vengono più descritte come le macchiette che conoscevamo negli anni ’80 e ’90. Eppure. Eppure, qualcosa ancora manca. Una delle giovani attrici più in voga in questi anni, Zendaya, protagonista tra le altre cose della serie tv Euphoria e dell’ultima triologia di Spiderman, poche settimane fa lo ha detto chiaro e tondo. Il sogno della venticinquenne americana è, in futuro, di passare dall’altra parte della cinepresa e fare la regista. E ha un film ben chiaro in mente. “La speranza è che sarò in grado, un giorno, di fare le cose che voglio vedere. E una cosa che non ho mai visto al cinema è una semplice storia d’amore tra due ragazze nere”.
Una frase banale, ma che nasconde una grande verità. Partendo da I segreti di Brokeback Mountain alle storie d’amore nelle serie tv più famose, i rapporti omosessuali sono esclusivamente legate a coppie bianche. Sdoganare l’omosessualità al cinema va bene, ma purché sullo schermo si vedano coppie bianche. Ma perché tutto ciò? I motivi sono facilmente individuabili. In primo luogo, a scrivere le sceneggiature e a dirigere questi film sono quasi sempre dei bianchi che, dunque, si rivolgono a bianchi e vogliono mostrare la normalità della vita quotidiana dei bianchi. Poi, però, c’è un secondo fattore, ben più complesso e pericoloso. Storicamente nella comunità attivista nera americana l’omosessualità è un tabù. Se da un lato vengono portate avanti le battaglie contro la diseguaglianza di razza, dall’altro resiste una sacca conservatrice che sfocia nell’omofobia. Essere gay in America non è facile, essere gay neri in America è durissimo. Poi c’è un secondo fattore, che è principale e decisivo. A scrivere le sceneggiature e a dirigere questi film sono quasi sempre dei bianchi che, dunque, si rivolgono a bianchi e vogliono mostrare la normalità della vita quotidiana dei bianchi. Insomma, un cinema fatto dai bianchi per i bianchi e finanziato dai bianchi. E Zendaya, con una semplice intervista, lo ha raccontato perfettamente.
Un concetto nato nel 1989
Il concetto di intersezionalità nasce nel 1989 e a dargli vita è stata la statunitense Kimberlé Williams Crenshaw, docente di legge, nera e femminista. Proprio partendo dalla propria realtà, la Crenshaw ha sottolineato come sia impossibile comprendere l’oppressione e la discriminazione delle donne nere considerando solo il genere o solo la razza, ma serve comprendere che le due categorie sono intrinsecamente intrecciate. “Si può fare un’analogia con il traffico di un incrocio, che viene e va in tutte e quattro le direzioni. Così, la discriminazione può scorrere nell’una e nell’altra direzione. E se un incidente accade in corrispondenza di un incrocio, può essere stato causato dalle macchine che viaggiavano in una qualsiasi delle direzioni e, qualche volta, da tutte. Allo stesso modo, se una donna nera si fa male a un incrocio, il suo infortunio potrebbe derivare dalla discriminazione sessuale o dalla discriminazione razziale. Ma non è sempre facile ricostruire un incidente: a volte i segni della frenata e le lesioni semplicemente stanno a indicare che questi due eventi sono avvenuti simultaneamente; dicendo poco su quale conducente abbia causato il danno”.
L’intersezionalità aiuta a superare le discriminazioni?
È evidente che il concetto di intersezionalità non è semplice filosofia o un esercizio di stile linguistico. I concetti di discriminazione multipla e intersezionalità non sono ancora entrati nell’immaginario collettivo e, quel che è peggio, non sono ancora entrati nella cultura giuridica, in particolare quella italiana. Contrastare le discriminazioni multiple è sempre più una necessità per realizzare una maggiore eguaglianza sostanziale delle persone, mentre applicare schemi rigidi e unidirezionali, cioè non comprendere la complessità della realtà discriminatoria è un vulnus che rende la guerra alla discriminazione impossibile da vincere.
Ma attenzione, perché concepire l’intersezionalità significa anche capire certe scelte che spesso appaiono confuse o in contrasto con il preconcetto che si ha. L’esempio più lampante riguarda le elezioni americane del 2008. A sfidarsi erano Hillary Clinton e Barack Obama. Cioè una donna bianca e un uomo di colore. Ebbene, nei sondaggi pre-elettorali il grande dubbio e la maggior incertezza riguardò cosa avrebbero votato le donne di colore americane. Avrebbero scelto il candidato “di genere” o quello “di razza”? E, guardando oltre al risultato elettorale, avrebbe fatto di più per i diritti delle donne afroamericane un presidente donna o un presidente afroamericano? Come si nota, l’intersezionalità è una componente che riguarda tutti noi a diversi livelli ed è qualcosa che, inconsciamente, viviamo ogni giorno. Su cui ragioniamo ogni giorno. Proprio perché, come detto all’inizio, gli individui non sono migliori o peggiori, ma non possono neppure venir racchiusi in un utopico – e sbagliato – concetto di uguaglianza.
Lo ha detto durante l’ultimo Festival di Sanremo Drusilla Foer, quando ha sottolineato di preferire al termine “diversità” il termine “unicità”. Ecco, l’interesezionalità è unicità, perché ogni individuo è unico, nel bene o nel male. E quando si parla di discriminazione non la si può affrontare pensando che tutte le persone di colore siano uguali, che tutte le donne siano uguali, che tutti gli omosessuali siano uguali, che tutti le persone con disabilità siano uguali. Non solo non lo sono, ma i preconcetti per cui nascono le discriminazioni spesso di mischiano – o peggio, si sommano – nella vita di molte persone. Solo capendo ciò e cercando di portare avanti politiche più inclusive si può combattere la discriminazione. Finché, invece, ci si riempirà la bocca di slogan facili ma unidirezionali si continuerà a vedere una parte del problema, ma non la sua interezza. E per combattere la discriminazione bisogna iniziare dalla cosa più semplice: non discriminare una sottocategoria all’interno di un gruppo eterogeneo che viene discriminato.
Disabilità, tra discriminazione e violenza
In un mondo che vive su binomi facili da comprendere e che non impongono concetti complessi, come uomo-donna, bianco-nero, etero-omo, il binomio sani-disabili è tra i più ignorati quando si parla di discriminazioni. Eppure le difficoltà che incontra chi ha una disabilità sono tantissime e spesso ignorate dalle istituzioni stesse. Basti pensare quanto tempo è passato prima che si ragionasse sull’architettura e l’urbanistica inclusiva, mentre sono due i campi in cui la disabilità è ancora ignorata e dove l’intersezionalità ha un ruolo gravissimo. Il primo è il mondo del lavoro, dove risulta occupato solo il 32,2% di coloro che soffrono di limitazioni gravi contro il 59,8% delle persone senza limitazioni. E contando che il 60% della popolazione disabile italiana è femminile è evidente come la difficoltà a trovare lavoro si unisca alle difficoltà lavorative che in Italia trovano le donne in generale.
Ma c’è un altro tema che è ancora più pressante e grave. Se in Italia la violenza fisica o sessuale subita dalle donne raggiunge il 31,5% nell’arco della vita, per le donne con problemi di salute o disabilità raggiunge il 36% tra coloro che dichiarano di avere una cattiva salute e il 36,6% fra chi ha limitazioni gravi. Quando si parla di femminicidi e di violenza di genere, dunque, non si può prescindere dalla necessità fondamentale di garantire ancora maggior sicurezza a chi ha ancora meno mezzi per difendersi da queste violenze.
(fonte dati: Istat – Sito Disabili.com – https://bit.ly/33FuVN4)
Intersezionalità e mondo del lavoro
L’intersezionalità va tenuta a mente anche quando si parla di mondo del lavoro, dove la discriminazione può essere subdola, a volte nascosta dalle politiche di ‘diversity&inclusion‘. I diritti delle donne, per esempio, rischiano di essere appannaggio di poche ‘élite’ che hanno maggior capacità comunicativa e peso mediatico, rispetto a problematiche che riguardano fasce della popolazione più ampie o più specifiche. Se è sacrosanta la battaglia affinché le manager abbiano uguale trattamento economico rispetto agli uomini e che vi siano più donne manager nei ruoli di comando, questo non deve prescindere dalle battaglie per l’equo stipendio per ogni tipo di lavoratrice. E al contempo non si possono dimenticare i problemi lavorativi legati al diritto alla maternità, che riguardano una parte molto ampia di popolazione femminile, ma che rischia di passare in secondo ordine perché non interessa allo stesso modo le donne che fanno parte di una classe dirigente. La questione di genere non può prescindere dal diritto allo studio, così come dalla necessità di un cambiamento culturale quando si parla di determinati percorsi di studio, storicamente legati a figure maschili, in particolare quelli scientifici e tecnologici (STEM). Come si vede, il binomio lavoro-donne ha, ancora una volta, sfaccettature socioeconomiche e culturali molto diverse e affrontare i problemi in maniera unidirezionale porta a lasciare indietro interi settori del mondo lavorativo femminile.
(Foto di copertina: https://genderphotos.vice.com/)