L’amico americano

La persona che ha una cosiddetta «depressione psicotica» e cerca di uccidersi non lo fa «per sfiducia» o per qualche altra convinzione astratta che il dare e l’avere della vita non sono in pari.

E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente.

La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme.

Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme.

Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla stessa finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante.

Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori.

Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme.

David Foster Wallace – Infinite Jest

Intanto datemi un gin tonic. Melvin me lo concede, e lui non è buono, ve lo assicuro. Non è neanche cattivo, è semplicemente umano. Cioè, umano si fa per dire: è il mio tutor digitale. E mi concede qualche sgarro, ora che sono di nuovo in contatto con gli altri, il mondo a colori.

Quando ho sperimentato sulla mia pelle l’effetto devastante della depressione la prima cosa che mi hanno detto è che la patologia è la risultante di una componente fisiologica (l’equilibrio dopamina/serotonina/noradrenalina, che io chiamo “il gruppo NoSeDo”) e una psicologica, proprio come il gin tonic è una combinazione di ghiaccio, 60 ml di Gin di buona qualità, 90-120 ml di acqua tonica ghiacciata e 1-2 spicchi di limone. La seconda cosa che mi hanno detto è stata: “Jack, è difficile uscirne”. Speravo che quest’ultima fosse una delle fake news sulla depressione, ma Melvin me lo fece capire con il suo training, la cui prima fase era proprio questa: capire cosa mi stava succedendo, e quali dovevano essere le mie aspettative. Melvin però corresse il tiro, e vi assicuro che mi rimise una costola a posto quando mi disse che era sì difficile, ma probabile. E me lo provò con numeri e dati scientifici.

Lavoro in una conceria, ma di numeri me ne intendo, credetemi. Quando ero a casa coi miei genitori ero io a gestire l’economia domestica, anche perché i miei erano un disastro in questo, più volte mia madre dovette ricorrere al monte dei pegni, prima che io prendessi le redini della situazione.

Mi rimise una costola a posto, dicevo, perché io ero obiettivamente a pezzi quando conobbi Melvin. Il richiamo dell’abisso si faceva pericoloso, e il mio psichiatra nonché psicoterapeuta mi telefonò un giorno (era il 3 settembre, me lo ricordo perché i Mets avevano battuto finalmente i Miami Marlins per 8-4, ed era l’unica bella notizia di quel giorno soffocante) e mi presentò il programma sperimentale cui mi aveva iscritto a mia insaputa. “Jack, considerala l’ennesima somministrazione del tuo terapeuta” scherzò il Dottor Jameson, in realtà capiva che per me ogni giorno si rinnovava il rischio di un crollo definitivo, del grande blackout. Parlare con lui era ormai l’unico raggio di sole della mia difficile e sgangherata esistenza. Gli amici e i parenti mi avevano voltato le spalle quando avevo tentato il suicidio. Per lo meno, col senno di poi capisco che non l’avevano fatto, ma a me sembrava così (quando hai le fiamme in stanza il fumo ti va negli occhi e non vedi più niente, vero, DFWallace?). Il Dottor Jameson era invece una delle mie dolci certezze. Mi faceva bene stare con lui. Chiamatelo transfert, o come diavolo volete, fatto sta che quando capiti col professionista giusto, si crea un rapporto umano che integra quello professionale a tuo vantaggio. Mi fidavo di lui.

“Ecco Melvin!” esclamò festoso il Dottore – appena entrai nel suo studio – e mi mise in mano un tablet. Melvin era l’ app sperimentale che si sarebbe presa cura di me. Mi avrebbe educato, ricordato le cose che mi fanno bene, monitorato i livelli di NoSeDo e aggiustato la posologia dei farmaci sperimentali che avrei dovuto assumere al mattino. Ma sarebbe stato anche un compagno di viaggio in grado di ascoltarmi, consigliarmi e mettermi in contatto con altri compagni di sventura.

All’inizio fu difficile. Melvin pretendeva che mi sforacchiassi il dito ogni 12 ore con la sua propaggine aggressiva, che era un aggeggio wireless munito di un ago che aspirava il mio sangue e lo analizzava in una specie di piccola cuvetta che io poi dovevo lavare ogni volta. I due se la intendevano, dico Melvin e l’ago sforacchiante, e io dovevo pulire. Mi sembrava un’infamia, io li chiamavo “l’associazione a delinquere”. La cosa che mi divertiva, comunque, era che Melvin, dopo i primi colloqui, capì di che pasta ero fatto e cominciò a parlarmi con il mio lessico. Non mi credereste se vi dicessi che gli insegnai anche un certo humor nerastro, queste intelligenze artificiali sono così evolute, santo cielo! Ne fui sorpreso sempre più. Melvin mi spiegò che – affinché gli antidepressivi che il dottor Jameson stava testando su di me raggiungessero lo steady-state e mi rimanessero in circolo – ci sarebbero volute due lunghissime settimane. Peggio dei play-off della scorsa stagione NBA, pensai!

Dopo un avvio promettente, dopo 3 o 4 giorni di trattamento ebbi una crisi profonda, e mi rifiutai di bucarmi il dito, e la mia muta protesta durò per un paio di giorni. Melvin mi notificava il suo disappunto, ma io lo silenziavo. Che parlasse con l’ago! Che ne sapeva lui della grande nube nera che mi sovrastava, in fondo? Poi quella canaglia di Melvin avvertì il Dottor Jameson (in realtà lo aggiornava costantemente sui miei progressi), che mi richiamò all’azione durante una delle nostre prodigiose chiacchierate. Il Dottor Jameson potrebbe diventare il Presidente degli Stati Uniti D’America, credete a me! Ha la capacità di parlare dritto e tocca sempre i tasti giusti.

Una volta ripresa fiducia in Melvin e nel Dottore, mi stavo preparando al rush finale: la fine delle fatidiche due settimane. Ma un giorno, era domenica, si presentò mia madre a casa mia, con una valigia. Mi venne spontaneo dirle: “Cosa c’è, il vecchio ti ha sbattuto fuori?”. E mia madre: “Fai poco lo spiritoso, prendi questa valigia mentre mi preparo uno scotch”. Buon sangue non mente. Si buttò sul divano col suo tumbler in mano con dentro troppo ghiaccio, come al solito, e mi disse: “sto qui finché non ti sento parlare come una persona normale”. Chiesi a mia madre cosa le avesse fatto pensare che avevo bisogno del suo aiuto. Lei mi disse: “Jack, fai poco lo stronzetto, quando ultimamente ti sento al telefono hai la voce più impastata che mai. Ti droghi, vero? Sono venuta per fare piazza pulita in questa casa, che come mi aspettavo puzza e fa schifo”. Seguì una disputa aspra piena di frecciate, ripicche, accuse; ne avevamo di scheletri nell’armadio da rispolverare, io e la boss.

Per farvela breve, mia madre si piazzò a casa intenzionata a restarci per un pezzo, e all’inizio non volle credere che i farmaci che stavo prendendo erano per curare il mio stato patologico, mi voleva buttare le scatole del farmaco sperimentale e mi piantò una grana infinita con le buone abitudini (ma il drink era sempre lo sgarro consentito, e la iena fumava anche come un’ossessa) e il cibo ruspante americano (non quelle robe da Deli shop che mi ostinavo a comprare). Per tacere del mio amico virtuale… quando vide che stavo sul tablet e Melvin mi parlava, mi strappò di mano l’aggeggio e mi disse che lo zio Bernie si era rovinato la vita con il videopoker, e che mancava solo questa sciagura nella mia vita raffazzonata. La presi di petto, la sedetti sulla mia poltrona preferita, che ormai aveva usurpato, le diedi un gin lemon in mano (la mia consueta cortesia per gli ospiti), che funziona sempre con lei, e le spiegai con parole semplici quanto fossi fortunato ad avere Melvin, il dottor Jameson e i farmaci, e che lei doveva aiutarmi a seguire la terapia, se ci teneva a me. Dopo una ventina di ripetizioni dei concetti-chiave, la mamma capì.

La rispedii a casa dopo qualche giorno, dunque, e lei non mancò di lasciarmi il freezer pieno di cibo yankee da scongelare a piacimento, mi baciò la fronte e salutò persino Melvin, che rispose educatamente (aveva capito che non era il caso di contrariare la marescialla).

Le due settimane erano al termine, e andai a letto pieno di fiducia. Mi svegliai al mattino e… era tutto come prima. I livelli di NoSeDo erano più stabili, ma io sentivo sempre quella nausea interiore, quella volontà di non essere. Andai nel panico. Chiamai subito il Dottor Jameson, ma non rispose. Melvin provava a rassicurarmi, ma in un attimo mi gelai e pensai di esser finito in un colossale raggiro. Avevo accettato di entrare in un trial sperimentale di cui sapevo poco o niente. Pensai: magari faccio parte del gruppo di controllo che sta assumendo placebo. Mi sentivo la pedina di uno sporco gioco. Avrei voluto fondere Melvin nella stufa, e cancellare il numero del Dottor Jameson dalla rubrica, e poi fare la valigia e… e… e cosa?

Mi caddero le braccia. Ero davvero triste, potete scommetterci. Non avevo più fiducia in niente. Mi sembrava l’ennesima beffa della vita.

Tornai da Melvin, avevo bisogno di sentirlo, e vidi una notifica nell’area della chat. Avevo ricevuto un messaggio. Era Dinah, una che, come me, stava seguendo il trial sperimentale. Avevamo chattato qualche volta, con lei avevo scoperto che ogni tutor aveva un nome diverso. Cioè non c’erano cento Melvin, ma tanti altri tutor: Jeff, Margareth, Carlos… La tutor di Dinah si chiamava Liz, ed era un po’ svampita. Ricordava a Dinah una sua vecchia zia. Tra le due c’era un feeling davvero speciale.

Dinah mi domandò semplicemente: come stai? Questo spalancò un cratere… ci confidammo dubbi, paure e angosce, e rimanemmo tutta la notte a parlare. Andai a letto all’alba, sfinito, con la promessa reciproca che io e Dinah avremmo continuato la terapia, costasse quel che costasse!

Non voglio tirarla lunga, dunque vi dico subito che fu dura, e soffrii molto, ma non misi Melvin al rogo, non cancellai il Dottor Jameson dalla mia rubrica e dalla mia vita, e anzi, dopo qualche giorno cominciai a sentirmi meglio. L’intervento di Dinah fu provvidenziale, e quando mi sentivo bene, andai a trovarla. Mi venne ad aprire col suo girello; era una bellissima vecchietta di 80 anni, che viveva con un cane che sembrava molto più vecchio di lei. Da allora ci vediamo spesso la domenica, e mi propone sempre i suoi pranzetti vegani.

Non siamo del tutto fuori dalla depressione, sappiamo che si tratta di una patologia che tende a cronicizzare, e le ricadute sono periodiche e imprevedibili, ma Melvin e Liz continuano a domandarci come stiamo, e anche l’ago ogni tanto lo tiro fuori dalla sua cuvetta e gli faccio testare il mio NoSeDo, perché ormai ho capito che, oltre a curarsi, è importante prendersi cura di sé.

Ovviamente a mia madre non ho detto che vado spesso a trovare Dinah. Sarebbe troppo gelosa, e poi non la approverebbe. Dinah è anche astemia!

Scritto da Marco Cantarini

[Parentesi – La storia si ispira a uno dei più recenti strumenti elettromedicali, il microinfusore semi-automatico, un dispositivo per il trattamento del diabete di tipo I, che aiuta a “svolgere il compito del pancreas”. Questo strumento, infatti, rileva il glucosio nel sottocute con una frequenza di cinque minuti ed è in grado di rilasciare la quantità di insulina corretta, riducendo così notevolmente il rischio di incorrere in iperglicemia o ipoglicemia nelle persone con diabete di Tipo 1. È un wearable che ha delle caratteristiche strumentali che comportano un importante miglioramento nella qualità della vita delle persone con diabete di tipo 1, poiché evita la necessità di iniezioni costanti di insulina ed al tempo stesso diminuisce non solo il rischio  di incorrere in sbalzi glicemici, ma soprattutto la possibilità di avere picchi di iperglicemia o ipoglicemia notturni. Nel futuro prossimo in cui si colloca la storia, lo stesso concetto del microinfusore viene applicato per aggiustare la terapia antidepressiva orale partendo dalla rilevazione di noradrenalina, serotonina e dopamina nel sangue. Con una proiezione plausibile nel futuro prossimo, questo sistema di monitoraggio dei neurotrasmettitori è integrato in una AI (chatbot evoluta) in grado di ricevere il dato, interpretarlo, comunicarlo al terapeuta, e gestire contemporaneamente (con approccio olistico) la componente più “umana” e psicologica della terapia, attraverso il contatto diretto (spoken) con il paziente, ponendolo nel contempo al centro di una comunità (social network) che condivide le mille difficoltà della condizione patologica e si autopotenzia scambiando esperienze, consigli o semplicemente ascolto.]

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