Vedere lontano, destinazione inclusione

È vero che l’aria in montagna è leggera. Io respiro meglio, nonostante il fiatone per la salita affrontata a ritmo sostenuto. Niente slanci, bisogna calibrare le energie. L’aria qui ha un buon odore di pino, di resina e muschio. Quando passiamo sotto le fronde fruscia tra gli aghi e mi accarezza le guance, mentre le spalle scoperte reclamano il sole. All’ombra mi viene immediatamente la pelle d’oca, anche se non sento freddo. Ma poi, trenta passi oltre ci troviamo in una radura e allora bisogna coprirsi la testa, perché il sole è feroce. Da bambina pensavo che più sali in cima alle montagne, più ti avvicini al sole, per questo rischi l’insolazione. Però non capivo come la neve potesse resistere tutta estate nei canaloni senza sciogliersi.

Sento la solidità della pietra sotto le suole rigide degli scarponcini. Mi lascio ipnotizzare dal ritmo dei passi miei e del mio accompagnatore, i nostri battiti allineati, il brecciolino che schizza sul sentiero come sabbia nelle maracas. Potrei andare avanti giorni, a camminare. È una di quelle cose che mi rimette in pace con il mondo. E ne avevo bisogno, dopo la conversazione spiazzante avuta con un appassionato di montagna come me.

È vero, non ci vedo. Ma le gambe funzionano perfettamente. E le camminate sono un mio passatempo fin da quando ero bambina. Ho proposto a una guida di incontrarci e di fare un breve tratto insieme, così da tranquillizzarlo sulle mie capacità. Non se l’è sentita. Era talmente in imbarazzo che continuava a usare il verbo “vedere” e poi mi chiedeva scusa. Così preoccupato di mostrarsi rispettoso della mia disabilità da sottolineare, anche con il lessico, che non potevo pretendere di fare cose da persona abile. Ha deciso lui per me. Per il mio bene, ha spiegato. Per non farmi correre inutili rischi. Ma io non ho paura di buttarmi.

Anche professionalmente penso di aver dato con il mio ruolo in questi anni un contributo sia dentro che fuori all’azienda.

Se anche in ufficio mi avessero confinato a piccoli compiti di routine, per non farmi affaticare, non avrei avuto l’opportunità di dare il mio contributo sia fuori che dentro l’azienda nel raggiungimento di un buon equilibrio fra lavoro e vita privata. Questo, secondo me, dovrebbe essere il compito principale delle Risorse Umane. La mia storia è esemplare: ho un impiego a tempo pieno presso una multinazionale, tante passioni e una vita sociale piena. Parallelamente a questo, ho una disabilità, che teoricamente non dovrebbe influire sul resto. Finché qualcuno non decide il contrario.

Nel mio ruolo di diversity manager, spiego alla maggioranza che le minoranze esisteranno finché non riusciremo a stabilire una convivenza. Che la diversità è negli occhi di chi vuole giustificare la propria superiorità. Finché manterremo la distinzione tra “noi” e “loro” non potrà esserci inclusione.

Consuelo Battistelli

Parto sempre da me: sono una donna cieca, una commistione di queste due identità minoritarie unite a decine di altre caratteristiche distintive.

Tra queste parti di me ce n’è sempre una che acquista più peso, in quanto riveste un aspetto di eccezionalità. Un’esperienza comune a chiunque sperimenti un’intersezionalità.

La caratteristica che prevale non riguarda l’identità, ma la rappresentazione: nel mio caso, per esempio, la disabilità viene prima dell’essere donna.

Parlare di minoranze significa accettare che qualcuno abbia deciso di appartenere a una maggioranza. E questo crea discriminazione.

L’obiettivo del mio lavoro è creare le condizioni per una convivenza fruttuosa tra le svariate diversità che popolano il nostro contesto.

La persona che si è fatta remore ad accompagnami in montagna non ha accolto la mia diversità. La mancanza di delicatezza non sta nell’usare il verbo “vedere” con un non vedente ma nel dare per scontato che la sua disabilità si metta di traverso tra un desiderio e la possibilità di realizzarlo.

Invece di avere paura di fare brutta figura bisogna avere l’umiltà di informarsi. Non bisogna chiedere scusa, bisogna chiedere e basta.

Ci sono domande che vengono fatte non per conoscere, ma per giustificare una chiusura. Esempio: “Quante persone servono, per camminare con te?”. Io cammino benissimo da sola, è che mi piace farlo in compagnia.

Mi sono accorta negli anni che l’inclusione non può essere imposta dall’alto: per quanto quasi tutte le aziende oggi promuovano una politica di apertura alla diversità, quindi dall’alto verso il basso, il cambiamento avviene sempre dal basso verso l’alto, cioè dalle scelte personali dei singoli dipendenti. Se la direzione è unilaterale, ci troviamo davanti a tanta forma e poca sostanza. Molti lodevoli intenti teorici che non trovano riscontri concreti.

La diversity è un dato di fatto, l’inclusione invece è una contingenza.

Per questo non mi piace parlare di sensibilizzazione alla diversità e all’intersezionalità. Quello che faccio io è a tutti gli effetti formazione. Di tipo pratico: organizzo pranzi al buio e tornei di sport paralimpici per i miei colleghi vedenti perché “sentano” una situazione non familiare. Parlarne solamente significa rimanere in superficie. Dove si tocca.

Avete mai visto un panel, per esempio, dedicato all’autismo o un incontro sui diritti delle donne guidati da uomini bianchi senza disabilità? Succede ancora troppo spesso ed è sintomatico di una mancanza di attenzione.

Non ho trovato un colore adatto, ma queste manifestazioni sono allo stesso livello di green o pink washing: le aziende fanno di tutto per dimostrarsi attente all’ambiente, alla condizione delle minoranze. Perché va di moda.

donna bendata

Certo, nessuno è predisposto a aprirsi all’altro perché uscire dalla zona di comfort ci fa paura. Ma come possiamo essere inclusivi se restiamo chiusi nel nostro orticello?

Le iniziative che organizzo sulle tematiche di D&I hanno successo perché una persona guidata per mano abbandona le paure e si avvicina all’ignoto. Lascia perdere l’imbarazzo di risultare indelicato rispetto alle disabilità altrui e si mette in gioco.

È una forma di accoglienza, come quella che ha convinto molti colleghi appartenenti alla comunità LGBQT+ a fare coming out.

Sono orgogliosa dei passi avanti che sono stati fatti negli ultimi anni, anche grazie al ruolo delle risorse umane, ma di strada da fare ce n’è ancora molta.

Conosco una persona cieca che è stata assunta da una grande azienda. Mi raccontava che ha a disposizione le tecnologie migliori per lavorare. Quando però gli ho chiesto nel dettaglio quale fosse il suo ruolo non è stato in grado di spiegarmi né per che dipartimento lavora, né chi sia il suo manager.

Ecco cosa fa il “washing” sull’inclusione di cui parlavo prima: maschera l’integrazione. Non basta avere persone con disabilità in organico per diventare automaticamente un’azienda inclusiva. Il collocamento dev’essere mirato: per diventare risorsa produttiva la persona deve essere messa in condizione di sfruttare i propri talenti, altrimenti la sua diversità verrà sempre prima delle competenze che può offrire.

Faccio sempre un esempio che proviene dall’ambito sportivo: chiedere a me di giocare a basket è una scommessa persa. Solo un matto passerebbe la palla sotto canestro a qualcuno che non vede. Fammi fare atletica, invece, e vedrai che porterò a casa degli ottimi risultati.

Perché ho gambe, polmoni e ambizione.

Scritto da Claudia Zanetti e ispirato alla storia di Consuelo Battistelli. Esperta in progetti e programmi di Diversity & Inclusion, in tutte le sue dimensioni: genere, LGBT, work and life balance, generazionale, multiculturale, disabilità. Dal 2016 è Diversity&Inclusion Manager e Project manager formazione presso IBM.