Intersezionalità vissuta: diario di una sirena

“Scusa, Cristina, cosa si intende con ‘intersezionalità’?”

Sono venti minuti che ne parlo con trasporto davanti a tutto l’ufficio, con tanto di slide proiettate alle mie spalle, eppure mi sono dimenticata di fare la doverosa premessa.

Mi rivolgo al collega che mi ha, giustamente, interrotto.

“Hai presente quando si dice ‘tenere il piede in due scarpe?’. Ecco, la sensazione è quella. In pratica, sai di appartenere a una minoranza, anzi a più di una. E questo genera una sensazione di esclusione”.

Io mi sono sentita esclusa proprio questa mattina, quando la mia incapacità di correre sulle scale mi ha lasciato in balìa della pioggia battente.

E così, prima di guidare l’incontro sulla diversità, mi sono rifugiata in bagno per darmi una sistemata.

Lì, con la testa infilata sotto il getto dell’aria calda dell’asciugamani, ho ripassato il discorso che mi attendeva.

“Secondo la ricerca, chi sente di rappresentare almeno tre minoranze, vive un conflitto interiore perché fatica a sentirsi a casa, ovunque si trovi”.

Io sono donna in un ambiente lavorativo a prevalenza maschile e col tempo più che sentirmi a casa ci ho fatto l’abitudine.

Mi appoggio al lavandino e ripenso all’incidente.

Sono bastati pochi minuti, ma diluviava, e il vento mi gettava la pioggia in faccia.

Da quando il Covid ha imposto controlli quotidiani dei dipendenti, l’ingresso secondario di fronte alla pensilina dove parcheggio non è agibile e tutti dobbiamo entrare dalla porta che si trova in cima a una scalinata affiancata da una rampa.

Una salita che ogni mattina affronto come fossero le pendici dell’Everest. Non perché sia particolarmente insidiosa, ma perché raggiunta la sommità mi trovo davanti a otto ore di lavoro.

Che poi il mio lavoro mi piace, altrimenti non sarei qui. E da tanti anni, ormai…

Resta il fatto che non dovrebbe essere tanto faticoso accedere all’ufficio. Studieremo una soluzione, magari riusciamo a parlarne già oggi in riunione.

Nel frattempo, nell’intimità del bagno ho trovato una posizione confortevole. Una mano appoggiata sul fresco delle piastrelle, l’altra che mi ravviva i ricci. Il rumore dell’asciugamani mi rilassa. Rumore bianco, lo chiamano. Le stesse frequenze che calmano i neonati. E poi, il tepore che entra dentro al collo della camicia scioglie le tensioni… Posso spostare qui la scrivania, almeno per oggi?

Con l’aria nelle orecchie, non sento la porta del bagno che si apre. La mia collega Dora si accorge che ho gli occhi chiusi e mi saluta con una voce fastidiosamente squillante: “Buongiorno Cristina! Ti hanno fatto un gavettone?”.

Mi giro e le sorrido. Le sue battute da scuole medie punteggiano le mie giornate. Lei lo sa che non fanno ridere, ma se smettesse di farle ne sentiremmo entrambe la mancanza.

Dora si avvicina al lavandino accanto a quello che sto usando come sostegno. Appoggiato al muro, nota il mio nuovo supporto che ho scelto rosa fluo. “Ah perché la stampella di prima non si notava abbastanza?” è il suo commento.

Sorrido, ma in realtà penso che no, non importa quanto la tua difficoltà sia visibile, solo le persone più attente la colgono.

Mi appoggiavo a quello stesso supporto pochi minuti prima, quando, cercando di bilanciare la borsa del computer su una spalla e stando attenta a dove mettevo i piedi, contavo i gradini che mi separavano da un tetto.

E in quel momento un collega, poco più che un ragazzino, mi superava, saltando i gradini a due a due, parlando agli auricolari ben calati nelle orecchie, che non erano ancora le nove ma già stava in call. È riuscito anche a scrollare l’ombrello sulle mie scarpe abbondantemente bagnate e mi ha lasciato in cima alle scale, davanti a una porta che mi si è chiusa in faccia.

Non pretendo il tappeto rosso. Però sarebbe stato bello essere perlomeno vista. Mi ha aggirato, come si fa con gli ostacoli.

Non sarà questo episodio a cambiarmi l’umore.

Ne ho passate tante, soprattutto sul lavoro.

Ero ben più giovane del collega che mi ha sorpassato sulle scale quando, fresca di diploma, sostenevo con entusiasmo i primi colloqui.

Ricordo un’occasione in cui avevo superato di slancio tutte le fasi di selezione. Mi ritrovo in un testa a testa con un collega. Che viene scelto. Perché è uomo.

E il selezionatore ci tiene a spiegarmi che la ragione è quella: “Questo lavoro comporta alcuni turni di notte. Non ce la sentiamo di affidarlo a te. E non perché tu non sia competente, anzi. Lo facciamo per tutelarti. Per la tua sicurezza”.

Oltre a essere donna, non cammino bene. Ma lavorando nel terziario non mi sono mai sentita in dovere di esplicitarlo a un potenziale datore di lavoro: quando sono seduta alla scrivania, mi muovo più velocemente di molti altri.

Nel campo dell’informatica, se vuoi assicurarti che io sia la persona giusta da inserire nel team, devi valutare che il mio cervello funzioni al meglio, non le mie gambe.

Così mi diceva il mio professore, quando me ne dimenticavo. Quando lasciavo che il pensiero delle gambe interferisse con tutto ciò che il cervello produceva.

Non penserò mica di fare l’atleta… E anche se fosse? L’acqua è il mio elemento. Magari sono una sirena e non me ne sono mai accorta.

L’unica cosa che so è che per ottenere risultati bisogna impegnarsi, come ho sempre fatto.

Il desiderio di rivalsa è forte, ma non ho mai sfruttato l’invalidità per facilitarmi la vita. Io seguo le stesse regole di tutti.

A volte mi metto nei panni del datore di lavoro: entro nel suo ufficio per il colloquio, vede che cammino male e già dalla prima domanda, mentre mi sto ancora presentando, si mette a calcolare le giornate di malattia che chiederò, anche se non necessito di cure. Magari non me lo chiede, per non risultare irrispettoso, ma nel frattempo mi mette addosso difficoltà che non ho. E, preso dalle sue preoccupazioni, non ascolta le mie risposte.

Tanto la decisione è già stata presa.

Cristina lavora in una importante azienda dell’informatica

Ci sono anche i selezionatori che non temono di fare brutta figura. Come quella volta in cui mi hanno chiesto se la mia condizione mi permettesse di avere figli…

Ho risposto compostamente, con una perifrasi elegante di “non sono fatti vostri”.

Che poi madre lo sono diventata. Per di più adottiva, per tenermi stretta l’etichetta di quella “strana”. Siamo come i post su Instagram: abbiamo bisogno di hashtag per risaltare in mezzo a migliaia di post uguali.

Però ho capito che con quella risposta potevo scordarmi il posto.

Il posto. Il nostro posto. Non è quello che cerchiamo tutti?

L’asciugamani si spegne e torna il silenzio che mi riporta bruscamente alla realtà. I capelli sono asciutti e devo finire di preparare la presentazione di oggi sull’inclusione.

Si collegherà da remoto anche un collega sordo, che lavora in un’altra sede. Da quando esistono i sottotitoli automatici, basta che mi tolga la mascherina e mi metta in una posizione ben illuminata perché lui riesca a leggere il labiale.

Dobbiamo educarci alla disabilità, anche se spesso si tratta di un processo per prova ed errore, che comporta una buona dose di imbarazzo. Non sappiamo come aiutare un collega cieco? Perché non chiederlo direttamente alla persona interessata?

Magari non risulteremo carini, o gentili, ma riusciremo a renderci utili.

Basterebbe mettersi nelle condizioni di chi abbiamo di fronte. A volte la sensibilità è abitudine: quando siamo noi ad avere una difficoltà, riusciamo più facilmente a cogliere quella dell’altro, e a capire in che modo aiutarlo.

E lo stesso vale per la diversità. Siamo tutti unici, funzioniamo in modo diverso. Ed è proprio la varietà che aggiunge valore. In un discorso di azienda, o di comunità, ognuno di noi rappresenta una componente fondamentale. Se fossimo tutti lo stesso ingranaggio, come faremmo a costruire un meccanismo?

È questo che cerco di spiegare ogni giorno, senza proclami ma semplicemente con il mio essere presente. E, fortunatamente, c’è sempre qualcuno che mi ascolta, e ancora prima mi vede.

Racconto scritto da Claudia Zanetti e ispirato alla storia vera di Cristina De Tullio. Cristina è nata con una malformazione congenita delle anche, problema che le ha creato una forte zoppia, ma non in acqua: è infatti un’atleta paralimpica nel nuoto e ha rappresentato l’Italia come atleta partner ai World Games Special Olympics di Abu Dhabi nel 2019. Lavora per IBM da oltre 20 anni come Technical Specialist e, all’interno dell’azienda, è anche leader del BRG MWA, Make Word Accessible, che si occupa di accessibilità, fruibilità delle tecnologie e dei servizi, al fine di supportare i dipendenti con disabilità nel percorso lavorativo in azienda.

(Immagine di copertina: Bruce Christianson on Unsplash)