Intersezionalità e diversity management, l’esperienza di Parks

Quando si parla di diversità il primo concetto che viene in mente è quello della discriminazione. Non sempre, però, si pensa che il passaggio successivo, fondamentale, è quello dell’inclusione, a livello sociale, ma anche lavorativo. A lavorare ormai da dieci anni per portare nelle aziende il concetto di inclusione della comunità LGBTQ+ è l’associazione no profit Parks – Liberi e Uguali. Con Igor Suran, direttore esecutivo di Parks, abbiamo parlato di inclusione, di diritti LGBTQ+ e di intersezionalità. Che non è per forza un ulteriore ostacolo all’inclusione, ma che può essere invece una narrazione per eliminare le diseguaglianze e i pregiudizi.

La prima domanda è scontata. Cosa è Parks – Libero e Uguali?

“Parks è un’associazione di datori di lavoro, aziende, istituzioni, ma anche atenei, teatri che sono accomunati dal loro impegno nella promozione delle attività inclusive rispetto alle diversità. Cerchiamo insieme alle aziende socie di capire quale valore possiamo trarre dall’implementazione delle buone pratiche del diversity management (ndr.:la gestione delle diversità in azienda). Ci occupiamo di un tema specifico, quello dell’orientamento affettivo e dell’identità di genere. Collettivamente il tema LGBTQ+ è stato a lungo un tema sommerso, un tema utopico, se non dire distopico, stigmatizzato per effetto di quelli che sono i valori della società. Un tema per decenni messo da parte e, dunque, il nostro obiettivo è permettere agli ambienti di lavoro di legittimare questo tema, portarlo in superficie, togliere gli stigmi sociali e aziendali e da quel momento in poi trattare questo tema come ogni altro tema che riguarda la vita delle persone.

Oggi le aziende parlano di inclusività, ma qual è realmente la situazione in Italia quando di parla di comunità LGBTQ+ e lavoro?

“Quello che ti ho detto prima oggi sembra una cosa scontata, ma solo dieci anni fa non lo era. Abbiamo vissuto in Italia un decennio di grande rivoluzione. Perché oggi ci sentiamo più liberi negli ambienti lavorativi di parlare di questo tema? Credo per una serie di passaggi compiuti in quest’ultimo decennio. Il primo è che ci siamo resi conto che parlare di orientamento affettivo e identità di genere non significa parlare per due ore di una persona nella sua sfera privata, chiuso nella sua camera da letto. È su questo che noi lavoriamo, sull’inclusione, sul garantire a chi fa parte della comunità LGBTQ+ di non dover scindere la propria vita privata da quella lavorativa, dal non dover sacrificare il proprio potenziale professionale alla propria identità. Oggi sembra una cosa scontata, ma non lo è. Non lo è ancora”.

“Purtroppo siamo in una situazione in cui ancora deve esistere un’organizzazione come Parks. Voglio dire che noi siamo tra quelle realtà che vorrebbero non esistere più, perché vorrebbe dire che non esiste più il motivo per il quale siamo nati, cioè la mancanza di inclusività. Ma si sono fatti passi avanti, come dicevo. Da un punto di vista di rappresentazione mediatica, chi si identifica nella comunità LGBTQ+ viene rappresentato molto diversamente rispetto a pochi anni fa. Pensiamo al Vizietto, pensiamo a cosa vedevamo anche solo cinque anni fa, oggi invece vediamo narrazioni molto sostanziali, serie, sulla vita delle persone omosessuali, sulle famiglie omogenitoriali, sulle persone transgender. E questo ha impattato il nostro modo di vedere cose che non facevano parte dei nostri schemi. Poi c’è stata la legge Cirinnà nel 2016. E questa legge con effetto domino ha posto le aziende di fronte alla necessità legislativa di regolamentare questi aspetti nelle loro norme. C’è stata un’accelerazione, si è dovuto iniziare a parlare del tema”.

La legge 76/2016 (detta legge Cirinnà) ha introdotto nell’ordinamento italiano l’istituto delle Unioni Civili, un primo passo in avanti per i diritti delle persone omossessuali che, pur lasciando aperte diverse questioni, ha aperto una breccia nella cultura della discriminazione.

Dalla vostra esperienza sul campo, quali sono le azioni più importanti da intraprendere a livello aziendale per garantire l’inclusività Lgbtq+ sul posto di lavoro?

“Come per ogni altra espressione della diversità o differenza, l’inclusione si può raggiungere facendo convergere da una parte la cultura e dall’altra le norme, gli aspetti organizzativi, i processi, i protocolli. La cultura ci permette di sapere e di capire, le norme ci permettono di dare vita a questa nostra consapevolezza. Quindi sono due cose che vanno assieme. Come metterlo in pratica, poi, dipende da ogni realtà, dagli obiettivi che ci si vuole prefissare. L’obiettivo finale dev’essere che una persona gay, lesbica, bisessuale o transgender – che voglia dirlo o non se la senta ancora – possa esprimere il suo massimo potenziale professionale in azienda. Perché le aziende lo fanno? Per due motivi. Il primo è etico, morale, perché sappiamo che oggi è la cosa giusta da fare. Il secondo è capire che creando valore nelle nostre persone creiamo valore per l’azienda stessa.

Se pensiamo alla disabilità, le necessità di una persona in carrozzina sono facilmente intuibili, servono strutture che permettano il movimento, eliminando le barriere architettoniche. Così per una persona ipovedente, è facile capire dove si debba intervenire per garantirle l’inclusività sul posto di lavoro. Ma una persona omosessuale quali necessità ha? Non è sempre così immediato per chi non fa parte della comunità LGBTQ+ capire quali siano le necessità che hanno sul posto di lavoro. È qui che si deve lavorare maggiormente, proprio perché in passato nessuno si è posto queste domande. Capire, parlare, conoscere per sapere quali siano gli ostacoli all’inclusione, con una partecipazione di tutti per rispondere alle necessità delle persone in un dato contesto, in questo caso il lavoro. In questo caso le barriere da eliminare non sono architettoniche, ma sono gli stereotipi.

Il Diversity Management riguarda diverse categorie da includere, da quella di orientamento sessuale, di genere, passando per quella etnica, culturale o relativa alla disabilità. Spesso queste discriminazioni hanno confini labili. Come si lavora per garantire l’inclusività nell’intersezionalità?

“Qui voglio ribaltare un po’ la teoria da cui si parte quando si parla di intersezionalità. Più che le difficoltà voglio sottolineare come l’intersezionalità in generale si ritrovi nel discorso dell’inclusività. Quando si affronta il tema, non ci si rivolge solo a chi fa parte della comunità LGBTQ+, ma a tutto l’ambiente lavorativo dell’azienda. La domanda cui chiunque deve rispondere è “Cosa c’è dentro per me? Perché devo essere coinvolto in una cosa che non mi tocca?”. E le risposte sono due. La prima è: è vero, magari sei eterosessuale e lo sarai sempre, ma forse nel futuro avrai una persona cara, un amico, un parente, un figlio che ti diranno che sono gay. E, a quel punto, aver combattuto oggi per l’inclusività di persone che non conosci significherà aver combattuto per tuo figlio o tua figlia domani.

La seconda, invece, è più legata proprio all’intersezionalità. Io, eterosessuale, non conosco il mondo delle persone gay o lesbiche, le loro necessità. Come posso, dunque, identificarmi con loro, sviluppare l’empatia se non sono gay, non ho figli gay? Lo puoi fare non pensando ai problemi che vive una persona LGBTQ+, ma pensando ai momenti in cui tu ti sei sentito escluso. Da bambino perché portavi gli occhiali spessi, perché eri un po’ sovrappeso, perché avevi i brufoli. O perché venivi da una famiglia meno abbiente e non avevi le scarpe alla moda. Ricordati i momenti in cui ti sei sentito escluso e ricrea quella sensazione di esclusione per capire cosa prova chi hai di fronte a te. Siamo tutti portatori di diversità, di unicità e dovremmo, dunque, forse poter capire la diversità altrui”.

Quindi il concetto di intersezionalità, secondo lei, può venir usato in maniera positiva quando si parla di trovare chiavi di lettura per portare avanti il concetto di inclusività per la comunità LBGT+…

“Voi nel primo capitolo della serie definite l’intersezionalità in maniera perfetta, sia da un punto di vista teorico sia delle problematiche che comporta. Qui io mi limito solo a parlane nell’ambito dell’applicazione che vediamo quando si parla di inclusività. In questo caso la consapevolezza, l’importanza e l’impatto dell’intersezionalità può essere una leva per intendere la questione e trovare una soluzione. Bisogna introdurre la narrativa che faccia capire alle persone come tutti siamo testimoni viventi di come qualcuno vede la diversità. Il concetto di intersezionalità ci permette di capire come alcune questioni siano oggi quelle attuali di cui si parla, ma che dobbiamo ricordarci che trent’anni fa, cinquant’anni fa ce ne erano altre che erano attuali e di cui oggi non si parla più perché sembrano assodate”.

“Pensiamo al nostro nome, Parks. Pensiamo a Rosa Parks che veniva arrestata perché si era seduta nella parte ‘sbagliata’ dell’autobus. Pensiamo a una donna italiana negli anni ’30 o ’50 che voleva uscire a lavorare e la guardavano come un alieno perché non voleva fare solo la madre, la moglie, ma anche la lavoratrice. Oggi non sono più un tema, oggi il tema sono lesbiche e gay. Tra vent’anni forse il tema saranno tanti altri aspetti che oggi non consideriamo. Anche questo è intersezionalità, mettere a confronto le cose che evolvono nel tempo, nella loro importanza, visibilità. Capire che quello che oggi è assodato, normale, in passato è stata una battaglia perché veniva negato. E se in passato erano i diritti delle donne, per fare un esempio, oggi sono i diritti della comunità LGBTQ+.

Garantire l’inclusività è una battaglia principalmente culturale, ma non solo. Voi vi rivolgete alle aziende per garantire il Diversity Management, ma secondo lei a livello istituzionale cosa serve in Italia per garantire questa inclusività?

“Non entro in un discorso politico, ma dico solo che come l’azienda lo deve fare e lo fa nell’ambito privato aziendale, così l’istituzione deve, a livello di società, ascoltare e prendere visione della situazione esistente per dare un contorno normativo legislativo della società. E a buon intenditore…