Cambiare il mondo con l’arte: Alina Tofan

L'arte come strumento per sostenibilità e comunità: Alina Tofan e il suo collettivo usano performance immersive nelle zone rurali romene per sensibilizzare contro la plastica e ricostruire il senso di comunità nella Jiu Valley, fortemente provata dalla deindustializzazione e l'inquinamento

In che modo l’arte può trasformare una comunità e promuovere la sostenibilità ambientale? In questa intervista di Marta Abbà, l’ispirante storia di Alina Tofan e del suo collettivo artistico, che nelle aree rurali della Romania utilizzano performance immersive per sensibilizzare le persone sull’importanza di un futuro senza plastica e per riscoprire il senso di comunità. Un viaggio attraverso la Jiu Valley, dove la creatività si intreccia con l’ecologia per dimostrare che la transizione verde è possibile ovunque.

Nel 1979 i minatori erano 179.000, alle soglie del secondo millennio 45.000, oggi meno di 2.000: quella della Jiu Valley è una storia di declino industriale in tre atti, ma il quarto potrebbe trasformarla in una storia a lieto fine.

Dipende da chi e da come lo si scrive, anzi, lo si crea, perché nel futuro di quest’area immersa tra catene montuose romene nel sud-ovest della Transilvania, l’arte potrebbe giocare un ruolo decisivo.

L’idea è di usarla come leva per innescare una transizione verde anche nel turismo, rendendolo capace di valorizzare non solo la meravigliosa natura di quest’area, ma anche la sua storia di capitale mineraria.

Per alcuni romeni dell’area parlare di “transizione”, addirittura di “transizione giusta” è inaccettabile: “giusta per chi, dopo anni di abbandono e di nulla?”.

Alina Tofan non è tra questi, lei ne parla, crede sia possibile attuarla e, come artista ed eco-attivista, coinvolge i suoi concittadini in attività e performance immersive che li aiutino a rivedere la loro idea di natura e rispetto del pianeta.

Video, realtà virtuale, teatro, musica e danza: ogni forma di arte è per lei un linguaggio potenzialmente utile per diffondere consapevolezza.

Nel 2020 ha fondato a Bucarest Plastic Art Performance Collective, unendo tanti giovani artisti attorno a questa sua missione green, concentrandosi su rifiuti, inquinamento ed estrattivismo. Negli ultimi anni, ha cercato di “decentralizzare” le iniziative di tutto il collettivo, per contribuire alla nascita di comunità di cittadini sensibili e attivi in tante diverse regioni romene. Poi è partita lei per prima, destinazione Jiu Valley.

Che realtà hai trovato quando sei arrivata in questa area e cosa hai proposto?

Siamo in uno degli ultimi baluardi dell’industria mineraria romena, qui si respira ancora un’aria molto pesante, l’inquinamento è palpabile e permane una forte differenza di possibilità di accesso alla conoscenza e alla cultura rispetto alla città.

Appena arrivata ho lavorato sulla relazione tra industria, individuo e comunità, realizzando un trilogia teatrale e alcuni progetti di ecologia per studenti.

L’anno scorso ne ho poi proposto uno rivolto all’intera comunità, per stimolarla a immaginare il proprio futuro in modo più rispettoso dell’ambiente e meno antropocentrico. L’ho chiamato “Ecosensoriality Path for Communities of the Future” e ho invitato due artisti dalla Norvegia per raccontare come sono riusciti a riconvertire un luogo industriale puntando su cultura e turismo verde.

Volevo mostrare al mio Paese un esempio concreto di valorizzazione turistica che includesse la tradizione mineraria, invece che nasconderla.

Ora, in collaborazione con l’Associazione Urban Lab, sto seguendo un progetto dedicato ai bambini e al fiume che attraversa l’intera valle. Con le performance artistiche vogliamo insegnare loro a rispettarlo in modo divertente. Sembra funzioni!

alina tofan

Quale ruolo può giocare l’arte nella sensibilizzazione e nell’attivismo ambientale?

Temi come l’inquinamento, la crisi climatica e il degrado sono complessi e poco graditi: non tutti vogliono affrontarli.

L’arte aiuta a farlo in modo più coinvolgente e, a volte, anche più concreto. Avvicina e rende visibili e tangibili concetti come il riscaldamento globale che, altrimenti, rischia di essere percepito come un problema altrui.

L’arte ha anche un forte potere di connessione: non ci fa sentire “soli contro il sistema” e rappresenta un buon punto di partenza per un dialogo. Non penso che, da sola, possa essere la soluzione, ma può contribuire a cambiare la società, avvicinandola efficacemente a temi ambientalisti.

Ogni volta è una sfida, l’ho notato soprattutto con la fascia di popolazione più anziana, in media più pessimista e disincantata, o concentrata su altre priorità.

Come pretendere che partecipi a un workshop artistico una persona di oltre 60 anni che fa turni massacranti di lavoro da 12 ore? Per non escludere nessuno, come artista ho cercato di inventare nuove forme di partecipazione più adeguate. Per esempio, passeggiate con eco-performance per aiutare le comunità a riappropriarsi della natura in cui sono spesso inconsapevolmente immerse.

Stanno avendo successo e in quei momenti si percepisce fortemente la necessità di recuperare anche il concetto stesso di comunità. L’arte e la natura mi possono aiutare a farlo, come possono essere utili anche a sensibilizzare le persone sui rifiuti, tema fortemente legato al coinvolgimento di comunità marginali, sia in senso geografico che sociale.

Come lo stai affrontando e in che modo vuoi coinvolgere la società?

Parto dal presupposto che dobbiamo smettere di considerare i rifiuti qualcosa di esterno alle nostre vite. Quando buttiamo qualcosa, smettiamo di pensarci, come se non ci riguardasse più, mentre invece continua a far parte dell’ambiente in cui viviamo.

Attraverso l’arte porto l’attenzione sul fatto che si tratta di un problema globale: non accade solo in Romania, anche se il concetto di spazzatura viene spesso associato alle comunità marginali. A noi, come margine d’Europa, alle aree rurali come margini delle città.

Lavorando sui miei “ricordi di plastica”, risalenti agli anni Novanta e su quelli della mia famiglia mi sono anche accorta di quanto la relazione con gli oggetti sia diversa per la mia generazione e per quelle precedenti.

In chi ha vissuto a lungo sotto il comunismo emerge spesso un forte attaccamento, probabilmente legato alla necessità di provare la propria esistenza attraverso di essi. Un’affermazione del proprio diritto di comprare, possedere, fare esperienze: “gli altri lo hanno avuto da sempre, ora tocca anche a noi goderne”.

Mi rendo conto, non è facile da comprendere questo atteggiamento, da fuori, come anche molti altri aspetti del mio Paese. Ne ho la conferma quando collaboro con artisti di altre aree: spesso arrivano già con un’idea molto degradata e povera della Romania, oppure sanno a stento dove si trova. Questo conferma quanto siano necessarie iniziative internazionali anche nel mondo dell’eco-performance e dell’arte.

Ne organizzi? Perché sono importanti?

Io per prima viaggio spesso, sono stata di recente in Spagna e in Portogallo per un progetto sulle specie aliene invasive, per esempio. A mia volta invito colleghi perfino dal Sud America per portare nelle comunità locali con cui lavoro, persone ed esperienze per loro inedite.

Per chi vive in Romania e non ha l’opportunità di viaggiare lontano, è il modo per aprire la mente, per conoscere modelli diversi di gestione dell’ambiente ma anche per capire che alcuni problemi sono globali e non solo “nostri”.

In ogni paese convivono bellezza e disastro, anche in Romania, ma è importante mostrare entrambi gli aspetti al di fuori dei nostri confini, ma con uno sguardo autentico, libero dagli stereotipi ormai vecchi che ci etichettano.

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