“La parola scienziato mi impressionava da bambino, invece ora mi ritrovo ad usarla per descrivermi” – così Giorgio Vacchiano rompe il ghiaccio mentre gli ricordo, che la parola scienziato suscita in tutti noi, fin da piccoli, una sorta di ammirazione reverenziale.
Classe 1980, ricercatore e docente in gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano, Giorgio Vacchiano secondo la rivista scientifica Nature è tra gli 11 scienziati emergenti al mondo su 500 profili valutati.
Piemontese di origine, oggi vive tra Torino, dove è cresciuto e gli piace tornare, Modena, città della compagna, e Milano, la sua sede lavorativa. Per Mondadori ha scritto il libro La resilienza del bosco – Storie di foreste che cambiano il pianeta, che parla della vita delle foreste, ma anche di ecosistemi, di cambiamento, del futuro del pianeta.
Come nasce l’idea di affacciarsi a questa professione?
Il mio percorso nasce in modo completamente casuale, un mix tra predisposizione e coincidenze. Sicuramente hanno influito l’interesse per la scienza e per le foreste. E, non ultime, le radici che si uniscono sempre alla formazione di una persona.
Sono figlio di due bibliotecari, mio padre è un appassionato di scienze e di insetti: da bambino mi regalava libri per riconoscere le stelle e le costellazioni, “Il piccolo chimico”. I miei genitori mi portavo sempre sulle montagne, e quei posti me li facevano vivere come un’avventura, non mi sono mai annoiato come tanti altri coetanei. Mi piaceva leggere i libri sugli esploratori e “Il manuale delle giovani marmotte”.
Al momento di decidere a quale facoltà iscrivermi avevo pensato di studiare astronomia, ma avevo 4 in fisica al liceo classico e i professori me lo avevano sconsigliato.
Scienze era una delle mie materie preferite e il mio insegnante era laureato in Scienze Forestali, così ho seguito le sue orme e mi sono iscritto all’Università di Torino.
Muovi i primi passi da ricercatore nell’ambiente universitario torinese?
A 23 anni, anno della mia laurea, il Professore di Selvicoltura mi propone di partire per lavorare in un bosco in Veneto. Accetto e dopo la tesi parto per Cortina per affiancare un gruppo di ricercatori per pochi giorni. Alla fine di quell’esperienza mi propone di partecipare al concorso per il Dottorato di Ricerca in Scienze Agrarie e Forestali, sempre a Torino. Faccio il concorso e lo vinco. Occupo quel posto per 3 anni, trascorsi tra una parentesi negli Stati Uniti, partecipazione a conferenze e stesura di pubblicazioni. Ma pensavo che quell’esperienza sarebbe finita con la scadenza del Dottorato.
Invece per otto anni continuo quell’attività come assegnista di ricerca in Gestione Forestale all’Università di Torino, fino al 2016 anno in cui scade definitivamente il mio incarico. E di concorsi da ricercatore non c’è neanche l’ombra. Interpreto questi due eventi come evidenti segnali di rinunciare alla carriera universitaria.
Oggi lavori in Università, cosa succede da quel momento in poi?
Mi attivo nella ricerca di altri lavori. Riesco a superare il concorso per l’insegnamento di ruolo ed entro a far parte del Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea (CCR) con un incarico da analista dati che, però, non aveva una componente di ricerca rilevante quindi lo sentivo un po’ stretto. Decido di continuare nella mia ricerca di un altro lavoro, partecipo a tre concorsi e li supero tutti e, dei tre, scelgo di accettare l’incarico di ricercatore e docente in gestione e pianificazione forestale a Milano.
La scelta di intervistarti nasce dalla volontà di dare voce a persone che hanno il desiderio di costruire un nuovo mondo, senti di identificarti in questo modello?
Tornando al mio percorso educativo la scelta di studiare Scienze forestali, veniva dal desiderio di voler “mettere le mani in pasta” e fare delle azioni concrete per l’ambiente.
Mi dava una prospettiva di responsabilità che si sposava con l’idea di impegnarmi concretamente perché le cose potessero andare meglio. Da quel momento ho sempre continuato su questo percorso. Quando, nel 2018, la rivista Nature mi scrive dicendomi che mi hanno scelto tra 11 scienziati che si occupano di discipline diverse (medicina, nanotecnologie, ricerca sul cancro), è stato un chiaro segnale che volevano dare evidenza a qualcuno che parlasse di cambiamento climatico e ecosistemi.
Quindi all’improvviso mi sono trovato a gestire per 3 giorni consecutivi numerosissime interviste, giorno e notte.
E’ stato come se qualcuno mi avesse messo un megafono davanti alla bocca. Il potere di comunicare è una grande responsabilità. Ho iniziato quindi a parlare di cambiamento climatico in quest’ottica, perché c’è un doppio filo tra foreste e quest’ultimo, ad andare in giro per le scuole, passando per la scrittura di un libro per Mondadori.
A proposito di cambiamento climatico e foreste: il tredicesimo obiettivo dell’agenda 20-30 è proprio la lotta contro il cambiamento climatico. A che punto siamo in Italia e quali sono le priorità?
L’Italia si sta riscaldando più in fretta del resto del mondo, parliamo quasi del doppio. Nel mondo abbiamo guadagnato circa un grado nell’ultimo secolo, in Italia due.
Nel 2018 le emissioni di gas serra diminuiscono del 17% rispetto al 1990 – anno di inizio del monitoraggio. Ma sono diminuite di meno dell’1% tra il 2017 e il 2018, quando si fermano i dati ufficiali: rimane dunque molto distante l’obiettivo europeo proposto dalla Commissione Ue per il 2030, con un taglio del 50-55% rispetto alle emissioni del 1990.
La maggiori emissioni provengono dalla produzione di energia elettrica (25%), dai trasporti (22%), da agricoltura e allevamento (17%) seguito dall’industria e dal settore residenziale (emissioni che servono per costruire, riscaldare e rinfrescare le nostre case).
Uno stimolo non trascurabile per ridurre il climate change in Italia viene proprio in questi giorni dal Decreto Rilancio che prevede la detrazione fiscale del 110% per le ristrutturazioni domestiche che garantiscono un miglioramento di almeno due classi energetiche: puoi installare i pannelli solari, puoi aumentare isolamento, etc.
La ripresa dal Covid-19 deve colorarsi di verde e incanalare delle strade che ci portano più vicini alla risoluzione del problema climatico e non lontani.
La produzione di energia è la prima cosa da cambiare e se disponiamo di fonti rinnovabili allora possiamo elettrificare trasporti e riscaldamenti; non ha, invece, senso elettrificare se la produzione si basa ancora sulle fonti fossili.
Quali sono le azioni individuali che possiamo mettere in campo per contribuire a questo obiettivo?
Ci sono alcuni settori dove le scelte individuali sono il punto da cui partire, faccio riferimento all’alimentazione o al risparmio energetico. Anche perché le decisioni delle persone tendono a essere contagiose. Nei settori chiave, però, l’individuo da solo, in termini concreti, non può agire molto, sono le istituzioni che devono attuare politiche di cambiamento. Penso all’ambito energetico e a quello dei trasporti, dove il nocciolo duro deve partire dalle amministrazioni nazionali e locali – ad esempio, il governo deve incentivare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
Indubbiamente i singoli e le istituzioni devono incontrarsi: i cittadini sono nella posizione di eleggere rappresentanti che promuovano politiche per la lotta al cambiamento climatico.
Quando questa stessa domanda è stata fatta a Greta Thunberg la sua risposta è stata che la prima azione individuale più efficace è informarsi, la seconda è informare gli altri.
Non ha detto: “spegnete la luce, non usate la macchina, non mangiate carne”, ma ha esortato a capire cosa sta succedendo e cosa c’è in gioco.
Ciò che possiamo fare è smettere di parlare della crisi climatica come un problema ambientale, ma considerarlo un problema sociale. Iniziare a capire che siamo parte della natura, non possiamo considerarci avulsi o qualcosa di separato. Tutto quello che accade agli ecosistemi ha un riflesso sulla nostra qualità di vita e sulla nostra salute.
Abbiamo fatto progredire la società a suo scapito, pensando che la cosa non ci avrebbe riguardato. Invece ci tocca da vicino e anche questa pandemia lo dimostra.
Quindi uomo, cambiamento climatico e pandemia, in che modo sono connessi?
Cito David Quammen, divulgatore scientifico autore di “Spillover”, quando ospite del Salone del Libro “extra” di un paio di settimane fa, ha dichiarato che le crisi del nostro tempo sono sostanzialmente tre: crisi del clima, della biodiversità (di cui si parla molto meno) e la crisi sanitaria. Sono tre fiumi che scendono dallo stesso ghiacciaio e sono connessi. Le soluzioni per l’una possono essere soluzioni per l’altra, e i disastri per l’una sono disastri per l’altra.
Questo significa, ancora una volta, che non possiamo reputarci terzi rispetto alla natura, ma siamo parte di essa. A questo proposito Elisa Palazzi, climatologa e Ricercatrice dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera del CNR, fa un’affermazione interessante: oggi che tutti stanno parlando del fatto che la natura ritorna durante il lockdown, che riguadagna i suoi spazi, dobbiamo fare attenzione perché questa visione propone ancora un punto di vista di separazione tra uomo e natura: l’uomo è cattivo, è un virus e se si ritrae allora la natura avanza.
Questa idea perpetua che ci sia una cesura tra noi e la natura.
Una chiave nuova che emergendo sul fronte scientifico è che tutto sulla terra è intimamente legato: ad esempio, la deforestazione in un punto che causa il cambiamento del clima in un altro. Noi, come esseri umani dobbiamo esistere insieme agli ecosistemi non ignorandoli, ma neppure pensando che possiamo separarcene. Il segreto invece è saper vedere le conseguenze a lunga distanza della nostra esistenza, e intraprendere le scelte che massimizzano il bene comune (che comprende la conservazione degli ecosistemi e dei loro servizi, senza i quali non possiamo sopravvivere).
Su quali progetti stai lavorando oggi?
Oggi ricopro una posizione per cui scrivo progetti e cerco di farli finanziare, a luglio ne partono un paio.
Uno riguarda la quantificazione di quanto carbonio può essere immagazzinato nelle foreste, per fare sì che le aziende private possano finanziare la gestione climaticamente intelligente dei boschi acquistando “quote di carbonio” . Si svolgerà in Italia, in due aree: Friuli e sull’Appennino Parmense.
Il secondo è una ricerca sul monitoraggio di lungo periodo degli ecosistemi che andrà ad analizzare i flussi di sostanze nutritive: osserveremo come il cambiamento climatico, e in particolare gli eventi meteorologici estremi, stanno alternando ciclo di azoto, carbonio, fosforo. La mia parte riguarderà lo studio della produzione di semi da parte degli alberi e avrà luogo in tre zone: Valcamonica, Trentino e Parco del Vesuvio.
Vado sempre meno sul territorio, delego queste attività ai miei collaboratori, anche se mi manca molto andare in bosco perché amavo farlo: quando ero assegnista ho trascorso ore e ore di studio controllando la crescita di migliaia di pini cartellinati.
Oggi però il mio obiettivo è costruire un gruppo di lavoro di dottorandi e assegnisti: saranno loro ad andare sul campo come è stato per me in passato. Le cose convergono in modo inaspettato.