Affrontare la crisi climatica richiede ingenti investimenti, si parla di trilioni di dollari. Dove prendere queste risorse? Una delle soluzioni, la più logica, è la tassa sulle emissioni di CO2 e il taglio ai sussidi diretti al settore dei combustibili fossili. Il tema è dibattuto da tempo e non piace a molti, comportando, tale approccio, un concreto pericolo di aumento dei prezzi di carburanti, energia proveniente da fonti fossili, in generale un aumento dei prezzi di qualsiasi prodotto o servizio abbia a che fare con i combustibili fossili, vale a dire quasi tutto. Perchè l’industria del fossile è abituata da sempre a fare così: scaricare sui cittadini i maggiori costi, non di certo riducendo il proprio margine di guadagno. L’impopolarità delle conseguenze della carbon tax diventa quindi uno scudo a protezione dell’industria del fossile.
Quindi, fino a oggi, niente di fatto rispetto a questa idea, tranne che per la pionieristica iniziativa dell’Unione Europea che ha lanciato lo scorso ottobre la prima fase del CBAM, il primo sistema al mondo per imporre tariffe sulle emissioni di CO2 ‘alle frontiere’ su acciaio, cemento e altri beni importati, nel tentativo di impedire ai prodotti stranieri più inquinanti di minare la sua transizione verde. L’esercizio di tassazione sulle emissioni di CO2 sarà effettivamente operativo dal 2026, in questa fase gli importatori dell’UE dovranno comunicare le emissioni di gas serra incorporate nella produzione di volumi importati di ferro e acciaio, alluminio, cemento, elettricità, fertilizzanti e idrogeno.
La spinta di Kristalina Georgieva
Sembra però arrivato il momento di adottare l’approccio del ‘chi rompe paga’.
A sostenerlo è niente meno che il Fondo Monetario Internazionale, in particolare nella persona della sua direttrice generale Kristalina Georgieva, alla guida del FMI dal 2019, che ha rilanciato l’idea recentemente proprio dal puipito di Davos, l’annuale incontro del World economic forum che riunisce personalità istituzionali, scientifiche, imprenditoriali per fare il punto sulla situazione mondiale da un’angolatura economica (ma non solo).
Chi è Kristalina Georgieva
Kristalina Georgieva è un’economista bulgara che dal 2019 è alla guida del Fondo Monetario Internazionale, l’ organizzione internazionale composta dai governi nazionali di 190 Paesi che ha lo scopo di promuovere la cooperazione sul fronte finanziario, monetario e commerciale.
Ne tratteggia un bel profilo il direttore di LifeGate Tommaso Perrone, che sottolinea come l’economista già alla Cop28 di Dubai aveva affermato che per trovare i fondi necessari per affrontare la crisi climatica è sufficiente dirottare gli investimenti che ora sono destinati alla produzione di carbone, petrolio e gas. E, contestualmente, introdurre una tassa sulle emissioni di CO2.
A Davos ha rincarato la dose con queste dichiarazioni:
“Al mondo vengono spesi 1.300 miliardi di dollari in sussidi diretti al settore dei combustibili fossili. Togliamoli da lì e usiamoli per supportare azioni per il clima. Non possiamo accelerare la decarbonizzazione senza porre un prezzo alla CO2. Un prezzo che aumenti in modo prevedibile. Dovrà arrivare a 85 dollari entro il 2030. Se solo fossimo in grado di incassare un quarto dei soldi derivanti dal prezzo attuale della CO2, saremmo in grado di recuperare 800 miliardi di dollari. Se arrivassimo al 50 per cento, avremmo a disposizione oltre 1.500 miliardi. Quindi il mio messaggio è: recuperiamo risorse dai settori che causano danni e mettiamole dove sono in grado di aiutare”.
Un discorso da tripla L : lucido, logico, lineare.
La Georgieva è stata vicepresidente della Commissione europea, prima ancora commissaria europea per la Cooperazione internazionale, affrontando crisi umanitarie come il terremoto di Haiti del 2010, le alluvioni in Pakistan, la crisi dei rifugiati in Europa (per i quali ha triplicato i fondi).
L’economista non è la figura algida che l’ha preceduta al FMI (Christine Lagarde), è molto più empatica e coinvolta quando parla dei temi sociali e ambientali.
Il suo intervento a Davos comprende anche un appello rivolto a tutti i leader mondiali, in cui dice: “A tutti i leader, ho un solo suggerimento: mettete come sfondo del vostro telefono la foto dei vostri figli e soprattutto dei vostri nipoti, se ne avete. E quando non sapete quale sia la cosa giusta da fare, guardateli e vi verrà in mente”.
Queste semplici parole, che sembrano quelle di una mamma, trasformano il concetto di sviluppo sostenibile, così sfuggente e astratto, in qualcosa di tangibile. Quei figli, quei nipoti, sono le ‘future generazioni’.
In una intervista con un importante giornale inglese The Guardian, la Georgieva tira le orecchie ai leader politici in quanto non abbastanza audaci nell’adottare quelle misure radicali che gli scienziati del clima ci chiedono: tagliare i sussidi ai combustibili fossili. Solo applicando una tassazione alle emissioni di carbonio, la decarbonizzazione di tutti i settori può accelerare.
I sussidi al settore fossile
Solitamente i sussidi si distinguono in diretti e indiretti.
I sussidi diretti sono quelli degli Stati che finanziano varie attività delle imprese legate ai combustibili fossili (energia, trasporti, agricoltura, edilizia, ecc) o che stimolano l’acquisto da parte dei cittadini di beni e servizi ad elevato impatto carbonico.
I sussidi indiretti sono invece tutti quei costi, sociali e ambientali, che le aziende dei combustibili fossili continuano a non pagare e a scaricare sulle spalle dei cittadini in termini di perdita di salute, di degrado ambientale e di inasprimento delle disuguaglianze. Costi che si possono identificare nell’inquinamento atmosferico – secondo il Fmi lo smog provoca 1,6 milioni di morti premature ogni anno -, nella perdita di biodiversità e nell’aggravarsi degli effetti della crisi climatica, tanto per fare qualche esempio. (fonte Asvis).
Il Fondo Monetario Internazionale nel suo studio IMF Fossil Fuel Subsidies distingue due categorie di sostegni finanziari ai combustibili fossili: gli aiuti espliciti, cioè quelli concessi per ridurre i costi di fornitura e ammontavano a 1.300 miliardi di dollari nel 2022; e gli incentivi impliciti, cioè i vari sconti fiscali e benefici relativi agli impatti ambientali. Questi sono aumentati significativamente in un anno, passando da 5.200 a 5.700 miliardi di dollari.
Complessivamente, la cifra supera i 7.000 miliardi di dollari, corrispondenti al 7,1% del prodotto interno lordo (PIL) globale, superando quella sull’istruzione, 4,3% e avvicinandosi a quella sanitaria, che rappresenta il 10,9% del PIL.
La carbon tax per il Fondo Monetario Internazionale
Questo studio intende alimentare il dibattito affinchè si arrivi alla carbon tax sostenuta dall’FMI. Secondo l’organizzazione, si di fatto arrivati a un punto di insostenibilità anche economica dei combustibili fossili.
Nella maggior parte dei Paesi i combustibili fossili hanno un prezzo errato, il prezzo reale dovrebbe riflettere l’intero costo produttivo e sociale dell’uso dei combustibili: i costi di approvvigionamento (ad esempio, manodopera, capitale, materie prime); i costi ambientali, tra cui le emissioni di anidride carbonica, l’inquinamento atmosferico locale e le esternalità più ampie associate all’uso di carburante, come la congestione stradale; e le imposte generali applicate ai beni di consumo. Purtroppo, i prezzi attuali sono abitualmente fissati a livelli che non rispecchiano adeguatamente i danni ambientali e, in alcuni casi, nemmeno i costi di approvvigionamento.
Di conseguenza, ha senso continuare a investire su un settore dannoso e obsoleto sotto tutti i punti di vista?
Se le emissioni globali di CO2 e altri gas serra non vengono ridotte del 25-50% rispetto ai livelli del 2019 ed entro il 2030, sottolinea il Fondo monetario, è probabile che l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale a 1,5-2°C diventi irraggiungibile. Le politiche volte ad aumentare il prezzo relativo dei combustibili fossili (carbon tax) rispetto alle tecnologie pulite devono svolgere un ruolo fondamentale per raggiungere tali riduzioni.
“Per raggiungere il livello necessario di decarbonizzazione, dobbiamo passare da circa 900 milioni di dollari all’anno di investimenti per la mitigazione a 5.000 miliardi di dollari all’anno. È una cifra che possiamo raggiungere?” ha detto alla Cop28 Kristalina Georgieva. “Se consideriamo la somma di 5.000 miliardi di dollari nel contesto di 7.100 miliardi di dollari di sussidi diretti e indiretti, o nel contesto dell’economia mondiale di oltre 100.000 miliardi di dollari, allora dovremmo essere coraggiosi e dire: sì, si può fare. Ma non possiamo avere successo nella lotta al cambiamento climatico se non lavoriamo insieme.”.
Aumentare i prezzi dell’energia può essere politicamente impegnativo, cioè essere impopolare e quindi allontanare elettorato, secondo molti detrattori della carbon tax, ma a parere dell’FMI è l’unica strada percorribile, produrrebbe velocemente una riduzione delle emissioni globali di CO2 del 43% entro nel 2030, mettendoci in riga con l’aumento della temperatura all’1,5 C° dell’Accordo di Parigi.
Parallelamente, si genererebbero delle nuove entrate consistenti, equivalenti a circa il 3,6% del PIL globale, utilizzabili per finanziare i costi della transizione climatica, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Entrate che non andrebbero quindi a sostenere il ‘passato’, ma il ‘futuro’.
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In ogni Paese, riformare gli incentivi ai carburanti, comporterebbe un aumento del benessere generale (grazie ai benefici ambientali locali e all’eliminazione delle distorsioni dei prezzi), prima ancora di considerare i benefici climatici globali. La spinta del FMI verso la carbon tax è diventata una sorta di missione. “Al FMI sosteniamo un approccio per accelerare la decarbonizzazione basato su un’azione tempestiva in questo decennio. Riteniamo che con un solido pacchetto di misure – tra cui rivalutazione del prezzo del carbonio (attraverso carbon tax), l’eliminazione dei sussidi dannosi e il sostegno politico per accelerare la decarbonizzazione – si possa ancora ottenere l’impatto necessario entro il 2030.
Al Fondo monetario stiamo rapidamente integrando il clima nel nostro lavoro, a partire dall’impegno politico con i nostri membri. Prendiamo in considerazione la mitigazione per i Paesi altamente inquinanti, l’adattamento per quelli vulnerabili e la transizione per quelli che hanno grandi settori di idrocarburi”.