La Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità, indetta dalle Nazioni Unite oltre 40 anni fa, non ha soltanto l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica, ma vuole porre al centro dell’attenzione la necessità che a tutti siano garantiti pari diritti e dignità: a fine 2022 l’Organizzazione Mondiale della Sanità stimava oltre un miliardo di persone in tutto il mondo con diversi tipi di disabilità, l’80% dei quali residenti nelle nazioni con il reddito più basso.
L’Osservatorio Nazionale della Salute nelle Regioni Italiane dell’Università Cattolica di Roma ha calcolato che in Italia sono quasi 13 milioni le persone disabili a fine 2023: di queste oltre 3 milioni sono in condizioni gravi. Va sottolineato che tali cifre non riguardano i “disabili temporanei”, ovvero quelli che ad esempio sono vittime di incidenti, ma poi ritornano in una condizione di salute. La giornata del 3 dicembre serve a comprendere i problemi connessi alla disabilità ma soprattutto a promuovere una società in cui scompaiano le discriminazioni che ledono i diritti e compromettono il benessere delle persone con disabilità, a partire dalle numerose barriere architettoniche che ancora esistono.
Per questa occasione abbiamo incontrato Giulia Riva, giornalista e campionessa di nuoto paralimpico, che insieme a Lorenzo Roata ha raccontato gli straordinari risultati degli atleti italiani alle Paralimpiadi di Parigi.
La passione per il nuoto
Ciao Giulia, iniziamo a conoscerti come nuotatrice: il nuoto è una tua passione che nasce da molto lontano, vero?
Io sono nata con una disabilità a una gamba, ma sono anche nata in una famiglia molto sportiva e che ha sempre cercato di farmi fare tutto, per lo meno in un modo che funzionasse per me. All’inizio lo sport aveva una valenza più terapeutica, ma il passo successivo è stato quello di utilizzare il mio corpo anche in maniera divertente. Ero piccola, ma ricordo ancora oggi la forte emozione della prima volta in piscina: l’acqua mi dava quella libertà di movimento che fuori non avevo, insieme alla possibilità di sperimentare nuovi movimenti.
Poi qualche anno fa – avrò avuto 28 anni, durante una mia sessione di nuoto libero mi ha avvicinata una istruttrice della piscina di Cesano Maderno mi ha detto che ero bravina e mi ha chiesto se non avessi mai pensato di fare delle gare: come risposta le ho riso in faccia.
Però hai appena conquistato una medaglia d’argento agli ultimi Campionati Italiani di Livorno: quindi è da poco che gareggi a livello agonistico?
Ho avuto quella reazione perché non pensavo proprio che fosse una cosa per me, alla soglia dei 30 anni e proprio nel pieno del praticantato della scuola di giornalismo. Ma in realtà mi aveva messo il tarlo: conoscevo lo sport paralimpico, ma finché qualcuno non te ne parla in dettaglio non sai “se sei troppo o troppo poco disabile”.
È successo che dopo la morte in un incidente di un mio caro amico sentivo tanta rabbia, avevo un dolore che volevo incanalare in ciò che a entrambi piaceva (andavamo insieme in piscina). Ho aumentato gli allenamenti con la mia squadra (Silvia Tremolada di Monza) e nella mia prima gara a febbraio 2022, ho fatto dei tempi validi per i campionati italiani. Il mese dopo ho gareggiato a Lignano vincendo due argenti, inaspettati: sull’entusiasmo di quei risultati ho allora deciso di dare ancora più spazio al nuoto e sono arrivate ancora tante soddisfazioni.
Oltre che in piscina fai gare anche su acque libere: è un’esperienza diversa?
Sì, amo tantissimo l’outdoor, dove è più importante la testa, perché non devi andare nel panico: hai pochi riferimenti per trovare il percorso e non sai che ostacoli puoi trovare, come il freddo o le correnti. Nella prima gara a Riccione mi sono presto trovata da sola in mezzo al mare, con parecchie meduse: avrei potuto alzare una mano e sarei stata raccolta, e lì ho pensato ai migranti, dicendomi che c’è gente che non ha questa fortuna.
Luca Pancalli, Presidente del Comitato Italiano Paralimpico, ha detto che “educare atleti significa crescere cittadini prima che campioni, e le medaglie sono un effetto collaterale”: mi pare un’affermazione molto vera per chiunque, disabile o meno.
Assolutamente: lo sport ti fornisce quella disciplina che si trasforma poi in uno strumento per cercare soluzioni. È qualcosa che poi ti resta addosso e ti fa capire che anche la fatica fa bene, se è mirata a un obiettivo: ti fa riconoscere la tua soglia limite, per andare oltre.
Aggiungo che molti atleti che ho incontrato, che fanno sport paralimpico a livello professionale, mi hanno detto che una delle più grandi conquiste è che da circa un anno e mezzo anche loro possono fare parte dei corpi sportivi dello Stato: questo significa potersi allenare e percepire uno stipendio, ma quello che mi ha colpito è che tantissimi hanno usato la parola “dignità”. Io non pensavo che vivessero ancora questa sensazione di differenza. Che uno Stato riconosca che una persona con disabilità sia un soggetto attivo, che può dare il suo contributo alla collettività mi pare un messaggio enorme.
La valore dello sport, la passione per il giornalismo
Le recenti Paralimpiadi hanno dimostrato e ribadito il valore assoluto dello sport, specie per le persone con disabilità, che magari iniziano a praticarlo a scopo terapeutico: che cosa bisognerebbe fare affinché le famiglie che hanno figli disabili li spingano a fare attività sportiva?
Ci vuole una comunicazione ancora più capillare: recentemente riflettevo sul fatto che le famiglie con ragazzi disabili devono affrontare molte difficoltà, spesso cercandosi da sole le risposte. Addirittura, nello sforzo di aiutare il figlio in una integrazione complessiva, ad esempio nella scuola, potrebbero quasi pensare che l’ambito paralimpico sia quasi ghettizzante, ma non è affatto così. Ho conosciuto atleti (o i loro genitori) che hanno fatto fatica a inserirsi nello sport paralimpico, anche se magari erano già atleti prima di un incidente: poi, conoscendo il movimento dall’interno, hanno capito di poterci appartenere, perché si fa agonismo vero, c’è competizione. Quindi, in una dimensione di questo tipo, la disabilità è parte del regolamento ed è uno dei fattori con cui devi fare i conti, proprio come il fatto di essere ed esempio più alto o più basso.
Passiamo allora alla Giulia giornalista e andiamo proprio alle Paralimpiadi di Parigi, dove sei stata a fianco di Lorenzo Roata ogni sera in televisione a celebrare le fantastiche imprese degli azzurri: ci vuoi raccontare questa esperienza?
Parigi è stato travolgente da tutti i punti di vista: ringrazio Lorenzo per l’opportunità che mi ha dato, ma oltre all’emozione e all’impegno personale, c’è stata la consapevolezza di un momento storico che abbiamo vissuto in Rai. Per la prima volta sono state mostrate ogni giorno in chiaro tutte le gare disponibili su una televisione nazionale: che vuol dire che è facile rivedersi. Mi piacciono le parole di Marion Wright, la prima donna afroamericana ammessa all’albo degli avvocati del Mississippi, che dice che “non puoi sognare di diventare qualcosa se non ti ci rivedi”, perché diventa molto difficile immaginarsi in quella specifica situazione: con una disabilità magari non penso di riuscire a fare certe cose. Pensiamo allora all’emozione, al divertimento, all’energia che ci sono arrivate addosso da Parigi: c’è tutto un altro livello di coinvolgimento, forse praticare quello sport non è poi così impossibile.
Infine, sono quasi certa di essere la stata la prima donna disabile a commentare una cerimonia d’apertura: questo, nel 2024, fa pensare, ma le rivoluzioni le dobbiamo pure iniziare da qualche parte.
Un’esperienza che continua, poiché sei stata “richiamata” nell’attuale edizione di SportAbilia, sempre a fianco di Lorenzo Roata: una bella occasione per dare continuità al forte messaggio paralimpico, non una volta ogni 4 anni.
Certamente: innanzitutto alle paralimpiadi ci si arriva se ci si è preparati per tutti gli anni e tutti i giorni prima. Ma esistono tante realtà sul territorio che magari non riescono a preparare un atleta per le paralimpiadi, ma fanno un incredibile lavoro capillare quotidiano: c’è bisogno che vengano conosciute, anche perché magari capita di scoprire che qualcuna di queste è nella propria città. Tali realtà/associazioni possono dare a una persona con disabilità un orizzonte, una prospettiva: la pratica sportiva fornisce poi quella capacità di gestire lo stress, le fatiche, gli imprevisti, che è naturalmente utile per qualsiasi persona.
Dopo la laurea in filosofia sei diventata giornalista: da dove nasce questa passione o interesse per il giornalismo e la comunicazione?
Fin da quando ero molto piccola ho avuto questo pallino (l’altro era quello di diventare un’attrice): il lavoro del giornalista dipende da quello che le persone sono disposte a darti. Perciò devi saperti mettere nei panni dell’altro affinché si apra e condivida con te dei contenuti veri, delle esperienze autentiche. Mi sono laureata in Scienze Filosofiche con una tesi sulla bioetica, intesa come storia di vite vissute, che ho sviluppato intervistando gli infermieri del centro di sclerosi multipla dell’Ospedale San Raffaele di Milano, per capire la prospettiva dei caregiver in queste realtà. Aggiungo che ho sempre parlato tanto, perché fin da bambina mi è stato chiaro che la mia voce poteva giungere dove le mie gambe facevano più fatica ad arrivare. Ho imparato presto a usarla bene e a difendermi con la parola: è uno strumento che ho sempre allenato tanto.
Un limite può essere un ostacolo oppure un confine
Nel tuo percorso prima scolastico e poi professionale hai mai incontrato difficoltà o discriminazioni? E nel caso come le hai superate?
Devo dire che non ho ricordi traumatici della mia infanzia, con i miei genitori e mio fratello abbiamo sempre fatto squadra: quello che mi ricordo è che l’idea di fondo era che, se volevo fare qualcosa e non lo facevo, ci perdevo io. Sicuramente fa molto il contesto in cui ci si trova e quindi le persone che si hanno intorno: certo, ricordo che alle elementari l’ora di educazione fisica non era la mia preferita. Ma penso anche alla mia straordinaria maestra d’asilo che aveva capito che io potevo fare tante cose: ricordo che alla recita finale dell’ultimo anno ho avuto il ruolo da protagonista, perché lei ha fatto ruotare tutti i bambini attorno a me, che venivano a trovarmi nel mio lettino; non mi ha tolto un ruolo, anzi.
Se possiamo permetterci una piccola invasione nella tua sfera privata, da qualche mese c’è anche una Giulia moglie: ci vuoi raccontare qualcosa anche di questo aspetto della tua vita?
È una grande avventura, è qualcosa che forse non mi sarei aspettata: ma soprattutto mi sono trovata davanti una persona capace di essere felice per me. E quando trovi qualcuno del genere te lo devi tenere stretto.
Mi pare che la tua vita, come pure quella di diverse altre persone con disabilità più o meno gravi, sia la dimostrazione che non solo è possibile superare molti tipi di ostacoli, ma si possono raggiungere grandi obiettivi e risultati straordinari, e vivere in pienezza: quale messaggio finale vorresti lasciare a chi leggerà questa intervista?
C’è una frase che da qualche tempo ripeto fino alla nausea ed è che i limiti dipendono da come li guardi: li puoi vedere come un ostacolo o come un confine. Nel primo caso diventano ingombranti, sono fastidiosi, mentre un confine può essere attraversato, oppure si può anche restare all’interno e starci bene: è un aspetto vero per tutti, anche per chi non ha una disabilità. Probabilmente nel mondo paralimpico questo è più vistoso, ma non più ingombrante, perché questo dipendo da come ognuno reagisce.
E vorrei concludere con un’altra affermazione molto bella che mi è stata detta una volta e mi ha colpito molto: tu puoi arrivare secondo, ma non sarai mai secondario.