Da qualsiasi punto di vista si parli di alimentazione – gusto e piacere, impatto ambientale, nutrizione – non ci si può concentrare soltanto sui piatti di casa, dal momento che molti di noi fanno almeno un pasto al giorno fuori casa. Di questi pasti, in particolare, una buona quota di questi è fatta nelle mense scolastiche, aziendali e ospedaliere. Purtroppo, spesso queste non garantiscono il meglio in termini di bilanciamento dei gruppi alimentari, né tantomeno di sostenibilità (e nemmeno di gusto, in effetti, come sanno bene tutti coloro che frequentano abitualmente la mensa). Alcuni limiti sono dovuti all’organizzazione stessa, alla logistica che impone di cucinare grandi quantità di cibo in anticipo per poi riscaldarla, specialmente se la cucina si trova in una sede centralizzata e i piatti sono poi ridistribuiti alle aziende e agli istituti destinatari. Altri problemi, però, possono essere risolti con alcune accortezze, in particolare quelli nutrizionali e legati all’impatto ambientale. Vediamo come.
Quali limiti nelle mense di oggi
FoodInsider, un osservatorio sulle mense scolastiche, ogni anno monitora lo stato della ristorazione scolastica per identificare modelli virtuosi e aiutare, così, le amministrazioni che vogliono migliorare questo servizio. I problemi maggiormente riscontrati da FoodInsider riguardano innanzitutto la scarsa appetibilità dei piatti, specialmente nelle mense scolastiche frequentate dai bambini più piccoli, che spesso – si sa – sono più difficili quanto a gusti, e questo finisce per alimentare lo spreco alimentare; il fenomeno è così diffuso che dai dati del 2022 emerge che il 47% degli insegnanti dichiarano che i bambini mangiano meno della metà del pasto. A livello di composizione del pasto stesso, poi, nonostante complessivamente negli anni siano migliorati i menù, si è allargata la forbice tra i migliori (individuati nel 2022 a Parma e Fano) e i peggiori, segnalando anche forti disparità territoriali.
Le opinioni dei cittadini sulle mense non sono particolarmente alte. Secondo il 71% degli intervistati in un’indagine Coldiretti, infatti, queste dovrebbero offrire cibi più sani per educare le nuove generazioni dal punto di vista alimentare. Anche FoodInsider ha rilevato diversi problemi da questo punto di vista: troppe proteine a pasto, in particolare troppa carne, poco spazio a cereali diversi da pasta e riso, abbinamenti sbagliati nel piatto (come legumi e carne insieme), troppe farine non integrali e frutta data solo a fine pasto, quando difficilmente sarà mangiata perchè si è già sazi, sono tra i limiti più presenti.
Una ristorazione collettiva sostenibile
Nonostante ciò, il lavoro di sensibilizzazione che FoodInsider e altri progetti, come MenoPerPiù che promuove l’alimentazione vegetale nelle mense, funziona. Sempre più amministrazioni e aziende, infatti, applicano i Criteri Ambientali Minimi (CAM), cioè i requisiti ambientali definiti per le varie fasi del processo di acquisto dei prodotti, volti a individuare la soluzione progettuale, il prodotto o il servizio di ristorazione migliore sotto il profilo ambientale lungo il ciclo di vita; nel concreto, viene eliminato quindi quasi del tutto il cibo processato, sono ridotte le monoporzioni di plastica (come quelle di yogurt e budini o formaggio monodose) e le carni rosse e vengono introdotti alimenti più sostenibili, cibi biologici, e si privilegiano i fornitori locali.
Per aiutare questi passi avanti, inoltre, ci sono iniziative come la campagna della Green Food Week, promossa proprio da FoodInsider assieme ad altri soggetti come MenoPerPiù e diversi Comuni aderenti, che quest’anno si è tenuta a fine febbraio; si tratta di una settimana dedicata a valorizzare e diffondere un’alimentazione a basso impatto ambientale e sempre più vegetale, che ha avuto il suo culmine il 16 febbraio, giorno in cui le mense aderenti hanno servito solo piatti senza carne. Le linee guida proposte dall’iniziativa suggeriscono indicazioni utili e valide non solo per la ristorazione collettiva; tra queste, prediligere piatti a basso impatto ambientale, cioè basati su cibi vegetali, a filiera corta e biologici, scegliere ingredienti che tutelano la fertilità del suolo come prodotti biologici, legumi e miglio; nelle scuole, se possibile, proporre a metà mattina frutta fresca; infine, offrire pietanze appetitose, cioè che garantiscano un’alta percentuale di consumo per evitare scarti e sprechi elevati. Le mense che hanno aderito registrandosi all’iniziativa hanno ricevuto un kit informativo per facilitare l’applicazione di queste indicazioni, allo stesso tempo coinvolgendo i bambini, ma anche per contribuire a diffondere il materiale informativo e misurare l’effettivo consumo dei pasti. In questo modo, per tutta la durata della Green Food Week le mense aderenti hanno proposto ogni giorno della settimana almeno un primo e un secondo sostenibile, cioè cibi prodotti nel rispetto dell’ambiente, vegetali, biologici e locali. Complessivamente, in ogni edizione della Green Food Week sono stati serviti più di 40mila pasti sostenibili grazie a questa iniziativa.
Le iniziative che si occupano di ristorazione collettiva e della sua sostenibilità, però, sono varie: basti pensare al progetto di Slow Food Pensa che Mensa!, nato ben 15 anni fa e che nel corso del tempo ha realizzato corsi di formazione per operatori, un manuale, iniziative nelle scuole e un’esposizione al Salone Internazionale del Gusto di Torino.
La mensa del futuro
Come deve essere allora la mensa del futuro? Per descriverla, un insieme di soggetti di cui fanno parte FoodInsider, Cittadinanzattiva, la Fondazione MPS, Good Land, Save the Children e Slow Food, ha elaborato un decalogo in seguito a un confronto con attori della società civile. I punti sono: diritto, accessibilità, risorse, educazione, nutrimento, sostenibilità ambientale e sociale, gusto, fiducia e partecipazione, comunità, formazione. La mensa, cioè, deve essere uno strumento di educazione alimentare, deve essere accessibile ed equa per tutti, una fonte di nutrimento sano ed equilibrato, deve fornire cibo sostenibile e buono; intorno alla mensa, i bambini, le loro famiglie, gli insegnanti e gli altri operatori coinvolti si potrebbero così riunire in una comunità volta a benessere e sviluppo, in un rapporto integrato con il territorio. Su tutti questi fattori bisogna lavorare e farlo non è facile, dal momento che oltre il 65% del fatturato del settore della ristorazione collettiva fa riferimento a otto colossi privati, vincitori dei bandi pubblici che premiano soprattutto la riduzione dei costi, dato che non sempre va d’accordo con qualità e pianificazione adeguata dei pasti. Malgrado le difficoltà, la consapevolezza si sta diffondendo e, ora che la strada è tracciata – come dimostra l’incessante lavoro di tanti enti e organizzazioni –, il percorso è più facile.