Diritti umani, i calciatori sfidano i Mondiali in Qatar

Le proteste di Norvegia e Germania rompono un argine: il calcio e lo sport non possono più fare a meno di prendere posizione sui diritti umani

È una questione spinosa, che ormai si trascina da tempo, da quando la Fifa ha assegnato i Mondiali di calcio del 2022 al Qatar. Ma è una questione che è esplosa con tutta la sua forza nei giorni scorsi, quando in Europa sono iniziate le sfide per le qualificazioni alla prossima Coppa del mondo di calcio.

La protesta di Norvegia e Germania

I giocatori delle nazionali della Norvegia e della Germania, infatti, si sono presentati in campo prima del fischio d’inizio con delle magliette inneggianti ai diritti umani e civili. “Diritti umani – dentro e fuori dal campo” si leggeva sulle magliette. E nella partita successiva la Norvegia si è presentata con un’altra maglietta, con scritto “Diritti umani, sul campo e fuori. Norvegia ok, Germania ok. E il prossimo?”. Una presa di posizione forte e che, in teoria, è in contrasto con i regolamenti Fifa che vietano qualsiasi tipo di espressione politica sui campi. Eppure proprio il massimo organo di governo del calcio mondiale ha già annunciato che non verrà preso alcun provvedimento contro le due nazionali e i loro giocatori. E anche questo è un segnale, forte.

Ma da dove nasce la protesta? Come detto è una questione che si trascina ormai da tempo e, anzi, le prime polemiche nacquero già nel 2010, quando venne assegnata al Qatar la Coppa del Mondo. Negli anni successivi si è spesso parlato di corruzione nell’assegnazione dei Mondiali, con tangenti che sarebbero state pagate alle altre confederazioni per “pilotare” l’esito del sorteggio. Ma è sulla costruzione degli stadi e delle infrastrutture che serviranno per il torneo che la questione è diventata ben più grave ed è per questa che i giocatori protestano.

6.500 operai morti in cinque anni

Il Qatar, infatti, secondo le accuse utilizzerebbe manodopera clandestina per la costruzione degli impianti, per lo più con immigrati da Nepal, Bangladesh, Pakistan e India, i quali riceverebbero stipendi da fame e sarebbero costretti a turni di lavoro estenuanti e a sistemazioni indegne. Più volte si è apertamente parlato di schiavismo nei confronti degli operai che lavorano in Qatar alla costruzione degli impianti e delle infrastrutture e secondo una ricerca del Guardian, negli ultimi dieci anni sono morti in Qatar più di 6.500 lavoratori.

Ma la protesta dei giorni scorsi potrebbe essere solo il primo, piccolo, passo di qualcosa che rischia di scoppiare tra le mani alla Fifa. Il prossimo 20 giugno 2021 la Federazione calcistica norvegese voterà la possibilità di boicottare i mondiali su proposta di alcuni club, mentre simili iniziative sono ipotizzate anche in Danimarca e in Germania. Non a caso Paesi del Nord Europa, dove i diritti civili, i diritti dei lavoratori e il welfare sono molto sentiti. Infatti, dopo Norvegia e Germania anche l’Olanda ha inscenato una protesta prima della propria partita contro la Lettonia.

Lo sport e quel problema con i diritti civili

Le proteste di questi giorni, però, non mettono sotto i riflettori solo la questione dei diritti civili in Qatar e dello sfruttamento dei lavoratori in quel Paese. Perché lo sport da tempo si è trovato in difficoltà nei suoi rapporti con i diritti dei cittadini, spesso preferendo i vantaggi economici e gli equilibri geopolitici al concetto di de Coubertin dello sport come veicolo di valori. Basti pensare, per esempio, alle polemiche nate per l’assegnazione dei Giochi Olimpici del 2008 alla Cina, un regime totalitario, dove le libertà sono negate e che per anni si è opposto a ogni politica globale per combattere l’inquinamento atmosferico.

O, più recentemente, ma sempre con la Cina coinvolta, si pensi alle polemiche scatenate da un tweet del general manager della squadra di NBA degli Houston Rockets Daryl Morey, il quale solidarizzava con i manifestanti di Hong Kong. Di fronte alle proteste cinesi la National Basket Association e gli Houston Rockets hanno preso le distanze da Morey, sottolineando come le sue fossero opinioni personali e che non rispecchiavano quelle del mondo del basket americano. Uno smarcamento che negli USA ha scatenato molte polemiche, perché seppur non prendendo posizione, le dichiarazioni della NBA sembravano quasi un appoggio alle politiche repressive della Cina a Hong Kong. Ovviamente la motivazione della scelta del basket americano era squisitamente economica visto il giro d’affari milionario che c’è in Cina attorno al basket a stelle e strisce.

Kaepernick, l’uomo simbolo dell’ipocrisia sportiva

Ma il caso emblematico dei problemi che lo sport ha con i diritti civili porta il nome e cognome di Colin Kaepernick. Nato a Milwaukee nel 1987, Kaepernick è – o meglio era – un giocatore di football americano. Sotto contratto con i San Francisco 49ers come quarterback, nell’NFL, il giocatore nell’estate del 2016, in forma di protesta contro le ingiustizie e oppressioni subite dalla minoranza nera negli Stati Uniti, smise di alzarsi in piedi durante l’inno nazionale statunitense. L’immagine di Colin inginocchiato durante l’inno fece il giro del mondo, ma a Kaepernick costò il contratto con la sua squadra, che a fine stagione non rinnovò, lasciandolo free agent.

Da quel momento, però, il giocatore non ha trovato nessuna franchigia di NFL pronta a metterlo sotto contratto. Nel novembre 2017 ha presentato un reclamo contro la NFL e i suoi proprietari, accusandoli di collusione per tenerlo fuori dal campionato. Kaepernick ha ritirato il reclamo nel febbraio 2019 dopo aver raggiunto un accordo confidenziale con la NFL. Dopo di lui in America, ma non solo, si sono visti sempre più atleti scegliere di inginocchiarsi durante gli inni in occasione di violenze della polizia contro uomini di colore – come nel caso più famoso di George Floyd -, ma lui continua a non avere una squadra.

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