“Là dove l’uomo è la misura di ogni cosa, la donna sarà sempre costretta a cercare di essere all’altezza”.
Questa frase di Carol Tavris sintetizza in modo perfetto il gap di disponibilità di dati di genere che esiste praticamente in ogni ambito della vita: dal design, alla medicina, alla sicurezza, alla progettazione delle città, a mille altre cose sulle quali si è chiamati a progettare per costruire servizi, prodotti, luoghi. Le conseguenze, non visibili a occhio nudo, suggeriscono una profonda riflessione: solo per fare un esempio, grazie al fatto che le cinture di sicurezza sono state disegnate pensando a come proteggere un uomo, una donna vittima di incidente stradale ha il 47 per cento in più di probabilità di restare gravemente ferita; il 71 per cento in più di subire una lezione moderata e il 17 per cento in più di morire.
Se si volesse dare qualche altro numero, utile a comprendere perché il maschilismo dei dati è cosa da sradicare, si può ricordare che il software di riconoscimento vocale di Google ha il 13 per cento di probabilità in più di comprendere con precisione parole pronunciate da un uomo; che nei programmi di informazione la presenza femminile scompare nelle notizie di politica e sport, con un 85 per cento le voci maschili, per non parlare di economia, dove i giornalisti uomini sono il 98-99 per cento.
In Italia solo l’8 per cento delle vie è dedicato a personaggi femminili (quasi tutte sante); negli Stati Uniti le statue dedicate a donne sono il 10 per cento; se si fa un giro su Wikipedia, si deve avere consapevolezza che solo una biografia su quattro è dedicata a una figura femminile. Secondo la ricerca del 2018 “The gender gap in science”, tanto per sintetizzare, sono 280 gli anni necessari per raggiungere la parità di genere nella computer science, 258 nella fisica, 60 nella matematica e fino a 320 nell’infermieristica.
Guido Romeo e Emanuela Griglié, entrambi giornalisti, hanno raccolto un elenco di “ingiustizie” nate anche grazie alla carenza di gap di genere nel libro dal titolo evocativo “Per soli uomini”. Con loro abbiamo provato a capire meglio i danni del maschilismo dei dati.
Qual è, in Italia, il settore in cui c’è un gap più evidente legato al “maschilismo dei dati”?
«Sicuramente l’informazione – esordisce Emanuela Griglié – infatti siamo stati indecisi fino all’ultimo se toccare questo tema o no perché i dati, purtroppo, sono gli stessi da molti anni. In Italia (e non solo) l’informazione è ancora molto maschiocentrica: notizie fatte da uomini e che parlano di altri uomini. Seppure le donne che lavorano nei media sono sempre di più, restano in posizioni non apicali. Difatti abbiamo un’unica donna alla guida di un quotidiano nazionale. Le donne che lavorano nell’informazione sono più precarie, guadagnano meno e ci sono settori come l’economia e lo sport in cui sono una rarità. Composizione che si riflette nelle notizie e nel modo in cui vengono date. Di donne, purtroppo si parla molto spesso in quanto vittime di violenze, ma quando vanno cercati degli esperti autorevoli questi sono quasi sempre maschi. Nel libro intervistiamo Barbara Serra che ci dice di essere molto seccata quando vede la prime pagine dei quotidiani italiani con tutte firme maschili, perché non si sente considerata come lettrice/consumatrice. Infatti l’inclusività potrebbe essere una buona ricetta per risollevare l’editoria, come dimostra il caso del Financial Times, che ha introdotto dei tools di Intelligenza Artificiale per equilibrare la presenza dei generi ottenendo più donne tra le lettrici paganti online».
Quali gli strumenti da mettere in campo per colmare i gap presenti anche nel vostro libro?
“Gli strumenti sono inevitabilmente tanti perché i fronti sono molti, ma direi che uno dei più importanti è l’accesso delle ragazze e delle donne a settori prevalentemente maschili” – continua Guido Romeo. “Penso alle STEM e in particolare alla computer science che abbraccia anche tutto il settore dell’intelligenza artificiale e dei big data in grandissima espansione e che sempre più fortemente plasmano la nostra società. Se non si cambia passo ci vorranno almeno 280 anni per raggiungere la parità di genere in questo settore mantenendo il ritmo attuale. Poi c’è quello dell’alfabetizzazione finanziaria, decisamente più bassa tra le donne, soprattutto italiane, che è un grave handicap”.
Esistono progetti interessanti che provano a colmare questo tipo di gap, e nel caso ci fossero, quali sono?
“Progetti ce ne sono molti, per l’editoria citiamo appunto Bbc e Financial Times o il nuovo media di genere americano The 19th*” – precisa Griglié. “Ma in generale, in tutti i campi trattati nel libro, proviamo a mettere in risalto delle soluzioni e delle buone pratiche che si stanno sperimentando”.
Da cosa partire in concreto nel nostro Paese (anche guardando alla possibilità di sfruttare i fondi del Next Generation UE)?
“NextGenEU – afferma Romeo – è una grande occasione per coniugare parità di genere e rilancio economico (le due cose sono sinergiche perché nella pandemia sono le donne che più hanno sofferto sul fronte professionale). Uno strumento molto utile, da applicare immediatamente è il GIA, il Gender Impact Assessment, di cui parliamo nelle conclusione del libro. Il GIA, che la parlamentare Maria Edera Spadoni ha inserito nell’ultimo allegato alla Legge di Bilancio, permette di fare una valutazione delle leggi sul genere. Ciò significa che un provvedimento apparentemente tecnico, come l’espansione del trasporto pubblico per abbattere le emissioni, se esaminato con i parametri opportuni, rivela un impatto positivo soprattutto per le donne che sono il 70% degli utenti”.
Parliamo di dati aperti*, dei quali si è molto parlato in passato (e si è poco realizzato) e di cui oggi si parla sempre di meno. Quali possono essere buone pratiche (anche non italiane) riferite a pubblicazione di dati anche di genere che possano far comprendere il valore dell’apertura di dati?
“L’esempio che facciamo nel libro – spiega Griglié – quando parliamo di mobilità, è quello di Santiago del Cile. In particolare, del progetto di Ciro Cattuto, direttore scientifico della Fondazione ISI, realizzato con UNICEF, GovLab, l’Universidad del Desarrollo di Santiago del Cile, GobLab della New York University, DigitalGlobe, specializzata in immagini satellitari, e la multinazionale Telefònica. Sostenuto da un grant (Big Data for Gender) della Data2X Initiative delle Nazioni Unite, il progetto ha indagato il gap di genere nella mobilità a Santiago del Cile, ma è stato interrotto dalle rivolte scoppiate alla fine del 2019 proprio per il rincaro dei biglietti della Santiago Metro, la municipalizzata dei trasporti. Con raro spirito di collaborazione tra le grandi aziende di telecomunicazioni e grazie alla visione del suo CEO, José María Álvarez-Pallete, Telefònica ha messo a disposizione i dati anonimizzati sul traffico voce e quelli della sua rete mobile, suddivisa per zone, mentre DigitalGlobe ha fornito le immagini satellitari della città. La prima indagine ha riguardato i luoghi più frequentati da una persona e quanto la scelta cambiasse a seconda del genere. I risultati hanno mostrato che le donne visitano un minor numero di posti rispetto agli uomini. Si spostano di meno e in un perimetro più limitato. E se nelle zone più ricche la differenza è quasi impercettibile, perché c’è maggiore disponibilità di un’auto individuale, nelle zone a reddito medio o basso il divario è drammatico. Per le donne con un reddito inferiore il trasporto pubblico non funziona affatto da equalizzatore, come accade invece per gli uomini. Se sei maschio e puoi accedere al trasporto pubblico, il tuo potenziale di spostamenti non cambia che tu sia povero o ricco. Un altro dato rilevante è che alle donne è collegato uno sproporzionato numero di viaggi verso gli ospedali, perché più spesso sono loro a prendersi cura dei familiari. L’approccio basato sui dati digitali utilizzato da Cattuto e colleghi è tanto prezioso quanto raro, poiché non tutte le aziende telefoniche sono disposte a collaborare, visto che il dato di genere è custodito con una certa gelosia dal marketing o desta preoccupazioni di privacy, nonostante in realtà non lasci mai i server aziendali e rispetti la normativa europea del GDPR che regola l’utilizzo dei dati dei cittadini dell’Unione. Malgrado la disaggregazione per genere non sia sconosciuta a chi si occupa di mobilità, poter utilizzare in maniera più sistematica questi dati getterebbe nuova luce sul modo in cui si muovono in città popolazioni diverse, visto che i questionari impiegati nelle indagini tradizionali non permettono di scalare oltre un campione limitato di intervistati”.
*Gli Open Data, o dati aperti, sono un concetto che fa riferimento alla possibilità, auspicabile, che i dati raccolti, prevalentemente attraverso i sistemi informatici, da Pubbliche Amministrazioni o aziende private nel momento in cui erogano servizi vengano poi messi a disposizione in forma anonima alla comunità scientifica, sociale ed economica per essere riutilizzati per diversi scopi, in quanto fornisco nuove informazioni e conoscenza.
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