A metà degli anni ’70, mia mamma gestiva un’attività in proprio già da qualche anno e guadagnava cifre che tenendo conto del cambio e dell’inflazione, corrisponderebbero oggi a “un fracco di soldi”. Chiuse il laboratorio di confezioni dopo dieci anni di straordinari ininterrotti, ma da allora non ha mai smesso di cucire.
Il fatto è che l’ha sempre fatto gratuitamente, collaborando con una serie di associazioni che raccolgono fondi attraverso la vendita di abbigliamento di seconda mano. Ma questa è un’altra storia.
Torniamo a mia madre poco più che ventenne, stakanovista e con il portafoglio gonfio di cash.
Spinta dalla sorella (la vera fashion victim della famiglia), decide di togliersi uno sfizio, che ai tempi consisteva nel comprare una pelliccia.
Così queste due ragazze prendono la macchina e da un paesino sul lago d’Iseo approdano in tutta la loro ingenuità nella pellicceria più chic di Bergamo. Segue scena che sembra copiata da Pretty Woman, quando la commessa tratta Vivian-Julia Roberts con sufficienza, dicendo di non avere niente “adatto a lei”.
Senza neanche sapere cos’è la spocchia, dopo essersi guardate un po’ in giro, mia mamma e mia zia scelgono le due pellicce più care del negozio e se le portano al paese. Così.
Quanto avrei voluto esserci.
Ovviamente, un acquisto del genere è una specie di rito di passaggio. Succede tutt’ora, solo che negli anni è cambiato l’oggetto del desiderio. Di solito si tratta di qualcosa che richiede un investimento economico importante, ma viene ricoperto di un tale significato simbolico che diventa praticamente impossibile disfarsene.
Com’è facile immaginare, il visone di mia mamma è ancora nell’armadio. E con molta probabilità, resterà a me e mia sorella. In eredità.
La pelliccia, un’eredità impegnativa.
Per prima cosa, se si vive in Italia, non c’è davvero più necessità di una pelliccia. Purtroppo, a causa del global warming anche al nord sono pochissimi i giorni invernali in cui sarebbe giustificata. Non siamo Inuit, non ci servono le pelli di foca. Il piumino è ugualmente caldo ma infinitamente più leggero, ed esistono tessuti e materiali tecnici che garantiscono calore senza scomodare la fauna.
Se poi guardo al mio stile di vita, non saprei quando metterla, una pelliccia: mi sposto in bici o con i mezzi, e abito in un monolocale. O io o il visone, non c’è spazio per entrambi.
E infine, ma forse più importante di tutto, c’è la questione etica.
Dal 2018 molte case di moda hanno deciso di non utilizzare più pellicce nelle proprie collezioni. La logica conseguenza sarebbe eliminare anche le pellicce sintetiche, che lasciano in pace gli animali ma sono realizzate in acrilico, una tipologia di plastica che non si può riciclare.
Lilah Ramzi, giornalista di Vogue, qualche stagione fa scriveva: “Indossare vecchie pellicce promuove il riuso e riduce gli sprechi nel grande schema delle cose, ma porta avanti anche l’idea della pelliccia come capo di tendenza”. In pratica, se continueremo a indossarle non passeranno mai di moda, e questo alimenterà la domanda. E per soddisfarla basterebbe rimettere in circolo tutte le pellicce che sono in letargo da anni dentro gli armadi.
A partire dalle nostre.
Le pelliccerie sono da sempre realtà artigianali, e la maggior parte del loro lavoro consiste nel rimettere a modello capi il cui taglio risulta troppo importante. La tendenza è quella di sdrammatizzare i capi, magari accorciando un cappotto in un giubbino, togliendo le maniche per creare un gilet, o tingendolo di colori che non ricordano il manto di un animale.
Il visone di mia mamma ha già subito una trasformazione, una trentina di anni fa. Era stato inizialmente disegnato come cappottino doppiopetto, e aveva incontrato il gusto di una ragazza che andava in giro con maglioni peruviani e jeans a zampa. Negli anni ’90 è stato affidato alle sapienti mani degli stessi pellicciai che l’hanno smontato e rimontato in un modello a vestaglia, ancora attuale.
Il restyling può essere rifatto più e più volte. Le lavorazioni sono complesse e costose, ma consentono di riutilizzare un materiale pregiato e molto resistente, perfetto per l’upcycling.
Segnalo Remod, una realtà di Brescia che utilizza pellicce dismesse e una manualità incredibile per inserire nei loro capi le strane creature immaginate da Alfi, street artist locale, sotto forma di intarsi.
Interessante anche l’iniziativa del brand K-Way, che dal 2014, grazie al progetto Furbe ha creato una reta di collaborazioni con realtà già presenti sul territorio. In pratica, chiunque acquisti un giubbino e abbia una pelliccia da riciclare, li può portare entrambi presso un laboratorio convenzionato perché vengano uniti, creando così una capo spalla reversibile e personalizzato.
A Milano c’è Winter lab, che utilizza il pelo (a volte dopo averlo rasato) per creare lussuose coperte, abbinandolo a tessuti etnici. Alcune tipologie si prestano a diventare tappetini scendiletto o copricuscini. Tutti accessori che vestono la casa.
Per chiudere, ricordiamo che esiste sempre la possibilità di donare le pellicce.
Purtroppo in Italia non è attivo il progetto di Peta, l’organizzazione statunitense a sostegno dei diritti animali, che raccoglie pellicce per donarle a persone che si trovano a combattere con il freddo, come i senzatetto.
Però possiamo portarle nei negozi di second-hand gestiti dalle associazioni che raccolgono fondi per progetti sociali. Magari sarà proprio mia mamma a “svecchiarle”. E una ragazza del terzo millennio potrebbe comprare la sua prima pelliccia senza spendere un capitale e senza causare violenza.
Il ciclo si ripete, questa volta virtuoso.