Transition Towns, così prende forma la città del futuro

Una chiacchierata con il fondatore del movimento Transition Towns Rob Hopkins. Per capire come può cambiare il modo di vivere, tra community energy, urbanismo tattico e agricoltura di prossimità. Seguendo i modelli virtuosi di Parigi e Barcellona

Autosufficienza energetica, una filiera alimentare corta, una mobilità più green e condivisa, la riduzione di inefficienze e sprechi nei servizi pubblici… piccoli cambiamenti con un grande impatto. Sono le transition towns, città in transizione.

Le metropoli possono diventare più vivibili, meno energivore e sciupone, con una qualità dell’aria (e della vita) decisamente migliore. E tutto questo potrà avvenire senza grossi scossoni, con una transizione molto fluida: piccoli interventi che costano poco in termini di investimenti pubblici e rendono i cittadini parte attiva del cambiamento attraverso processi decisionali più inclusivi, improntati ai principi della democrazia partecipativa. Un’utopia anche solo pensarlo 15 anni fa, quando Rob Hopkins ha fondato il movimento delle Transition Towns, le città di transizione, a Totnes, nel Regno Unito. Oggi, invece, quello che era partito come un progetto pionieristico nato per promuovere una maggior consapevolezza rispetto all’insediamento sostenibile è diventato un movimento globale, che conta diverse migliaia di progetti in una cinquantina di nazioni. Una trentina quelli attivi in Italia, concentrati soprattutto in Emilia Romagna.

Cosa sono le Transition Towns

L’idea alla base di una città di transizione è quella di creare comunità locali (rioni, quartieri, municipi) in grado di operare per quanto possibile in autonomia – dalla produzione dell’energia a quella di cibo, ai servizi pubblici – promuovendo un modello di consumo più circolare e di prossimità.

Nel blog di Transition Italia vengono elencati i 12 passi per avviare la transizione verso una comunità che si autosostenta, riducendo al minimo sprechi e i rifiuti attraverso l’attuazione di pochi, semplici, cambiamenti pratici. L’idea alla base delle Transition Towns è che è possibile costruire una città migliore a piccoli passi partendo dal piantare alberi, potenziare il trasporto pubblico, aumentare l’uso delle fonti energetiche rinnovabili, costruire orti urbani per promuovere una filiera agroalimentare sempre più corta, realizzare edifici che non consumano fonti energetiche esterne… Fino ad attivare progetti su scala sempre più ampia, coinvolgendo anche le imprese e altri soggetti economici privati e pubblici, collaborando con le amministrazioni locali.

Community energy, i benefici del gestire localmente la distribuzione dell’energia

Rob Hopkins


Un punto chiave per raggiungere l’obiettivo dell’autosostentamento delle comunità locali è rappresentato dalla gestione in autonomia della produzione energetica. L’innovazione sociale offre la possibilità di sperimentare modelli di vita più circolari e sostenibili che si adattano perfettamente alla realtà dei piccoli borghi e delle cittadine di provincia, ma non solo. «Le energie rinnovabili, in particolare – mi spiega Rob Hopkins, fondatore del movimento Transition Towns –, permettono alle piccole comunità di essere più democratiche, prendere in mano il proprio futuro ed essere più resilienti. Il sistema della community energy prevede che gruppi di cittadini investano direttamente nella realizzazione di modelli energetici carbon-free. I vantaggi non si limitano solo alla possibilità di adottare fonti energetiche pulite ma sono anche di tipo economico-finanziario. I proventi della vendita dell’energia non consumata dai produttori, tipicamente le aziende o i privati che ospitano i pannelli fotovoltaici o le turbine eoliche, sono ripartiti nella comunità e non sono più appannaggio esclusivo delle utility».

In diversi paesi europei, così come nel Regno Unito, diverse comunità hanno costituito le proprie società energetiche, che gestiscono l’erogazione dell’energia prodotta in loco all’interno dei membri della comunità. Un modello che dimostra di funzionare, visto che «oggi circa la metà dell’energia rinnovabile prodotta in Germania è gestita attraverso qualche forma di community energy» dice ancora Hopkins. Un investimento che non è solo etico, ma anche remunerativo. Al punto che «in Danimarca le famiglie, in questo momento, preferiscono investire nell’eolico piuttosto che aprire un conto in banca». E molte aziende si sono rese conto che si tratta un modello scalabile. Nelle città inglesi di Bristol e Bath diverse utility hanno raccolto milioni di euro da gruppi di cittadini per gestire localmente la produzione e distribuzione di energia proveniente da fonti rinnovabili. «E d’altronde le utility per come le abbiamo sempre conosciute smetteranno presto di esistere – si dice convinto Hopkins –, perché entro i prossimi cinque anni gran parte di queste aziende utilizzerà fonti 100% rinnovabili. Lo scorso anno per la prima volta nel Regno Unito la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili ha raggiunto il 42% e superato quella prodotta da combustibili fossili, che si è attestata al 40%». Le energie rinnovabili offrono enormi potenzialità di sviluppo per le comunità più piccole e consentono di portare cambiamenti significativi a livello locale per risolvere il problema della povertà energetica che, ancora oggi, è piuttosto diffuso anche in Occidente. Il principio è piuttosto semplice: l’energia prodotta dai pannelli fotovoltaici o dalle turbine eoliche ospitati su una proprietà privata, che si tratti di un’abitazione o di un edificio industriale, se non è consumata finisce in una rete locale, a disposizione dei membri della comunità e contabilizzata a tariffe particolarmente vantaggiose. Oltretutto, la gestione in locale dell’energia prodotta assicura minori dispersioni – tipiche, invece, delle reti estese. Così facendo, si realizza un altro obiettivo proprio delle città in transizione, ovvero la riduzione degli sprechi.

Case passive (passive house), per un’edilizia più sostenibile e inclusiva


L’autosostentamento della comunità poggia, dunque, su diversi pilastri. Nell’Europa centrale e settentrionale, i progetti di città in transizione spesso promuovono anche i modelli di bioedilizia basati sulle case passive (passive house). Questi edifici sono progettati con materiali e tecniche che permettono di coprire la maggior parte del fabbisogno energetico per il riscaldamento o il condizionamento degli ambienti ricorrendo a sistemi passivi, che non richiedono quindi forniture energetiche esterne, come le serre solari, i muri di accumulo o i collettori solari. Fino a qualche anno fa queste abitazioni si contavano a poche decine in ogni nazione. «Il sindaco di Parigi, invece, si è impegnato a uniformare agli standard delle passive house tutte le nuove costruzioni di edilizia popolare e housing sociale, per promuovere un concetto di abitazione non solo ecosostenibile ma soprattutto più inclusiva, grazie alla possibilità di azzerare i costi delle utenze», mi spiega Hopkins. Nell’Atelier Du Pont, per esempio, l’amministrazione cittadina ha lavorato su più fronti e in sinergia con le comunità locali per disegnare spazi più belli e vivibili, ridurre il cemento, sostituire progressivamente i vecchi mezzi pubblici con veicoli meno inquinanti e costruire abitazioni ad altissima efficienza energetica.

Città dei 15 minuti e urbanismo tattico: Barcellona, Parigi e Milano fanno scuola


Un punto fermo delle Transition Towns è rappresentato dall’iperprossimità: chiunque vive la città, la abita o la visita deve avere un accesso rapido ai servizi urbani essenziali. Solo garantendo ai cittadini la possibilità di raggiungere la maggior parte dei posti in cui hanno bisogno di andare in pochi minuti si può realizzare la transizione verso nuovi modelli urbani più vivibili e sostenibili. Un concetto che Carlos Moreno, professore dell’Università della Sorbona di Parigi, ha tradotto nella sua teoria delle “città dei 15 minuti”. In queste città tutti i servizi principali son raggiungibili con una breve passeggiata di un quarto d’ora al massimo a piedi o in bicicletta. Per realizzarle occorre ripensare radicalmente la mobilità e il concetto stesso di viabilità. E non basta puntare sulle auto elettriche. «A mio parere – commenta Hopkins – il senso non è di utilizzare automobili alternative ma solo alternative alle automobili. Come sta stanno facendo a Barcellona, dove l’amministrazione ha convertito un terzo delle strade del centro città a parchi e spazi di socialità, sottraendole al traffico grazie ai progetti di urbanistica tattica». Molti sono i progetti avviati in periodo di pandemia anche in Italia, tra i più noti quello di Milano. «Io dico, però, che è giunto il momento di osare di più, di essere più audaci. All’inizio bisogna essere pronti a perdere consensi proprio come è successo al sindaco di Parigi, Anne Hidalgo, quando ha iniziato a chiudere le strade per renderle ciclabili. Poi però a distanza di tre anni, oggi Parigi è piena di biciclette e monopattini elettrici e gran parte della cittadinanza è contenta di come la città è cambiata. Ecco perché dico che bisogna assumersi la responsabilità di prendere decisioni coraggiose», conclude Hopkins.

Barcelona, Arc de Triomf – Photo by J Shim on Unsplash

Transition Towns, da dove si parte


Basta solo andare online per trovare spunti interessanti e linee guida su come riprogettare le città del futuro partendo in piccolo e sperimentando su scala ridotta ma con una prospettiva metropolitana. Sul web ci sono molti esempi ben spiegati di quanto è già stato fatto all’estero e in Italia. Se un’amministrazione vuole imboccare il sentiero della transizione, può iniziare a farsi un’idea consultando queste risorse online:

Transition Italia

Rob Hopkins

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