Women on boards, nel linguaggio comune è il “nome in codice” della direttiva Ue 2022/2381 (Gender Balance on Corporate Boards Directive) che punta a migliorare l’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate. Dell’impatto del provvedimento e della sua utilità ne parliamo con Paola Caburlotto, Equity Partner Chaberton Partners, società europea di Executive e Management Search che si sta affermando tra le realtà più dinamiche ed innovative nel mercato della consulenza su temi di leadership, capitale umano e corporate governance.
Carburlotto, partiamo dalle basi: cosa prevede la direttiva 2381?
“Questa direttiva mira a garantire una maggiore parità di genere nella governance aziendale, promuovendo una rappresentanza più equilibrata nelle decisioni strategiche delle imprese. Le norme prevedono che almeno il 40% dei posti di amministratore senza incarichi esecutivi debba essere occupato dal genere meno rappresentato (ndr. solitamente il genere femminile). In alternativa, se uno Stato sceglie di applicare le norme a tutti gli amministratori (sia esecutivi che non esecutivi), il genere meno rappresentato deve raggiungere almeno il 33% del totale delle posizioni in consiglio. La normativa non si applica alle piccole e medie imprese ma impone alle grandi società quotate di raggiungere, entro il 30 giugno 2026, uno degli obiettivi sopra descritti.”
Perché la Ue ha scelto la strada della direttiva?
“L’Unione Europea ha scelto di adottare una direttiva vincolante perché le misure volontarie e di auto-regolamentazione non hanno portato risultati concreti. Nonostante il tema della parità di genere sia stato al centro del dibattito per anni, i progressi sono stati troppo lenti e insufficienti, soprattutto nelle posizioni di vertice. I dati parlano chiaro: ancora nel 2021, solo una minoranza di donne occupava ruoli chiave nei consigli di amministrazione delle società quotate, e le presidenze erano quasi esclusivamente maschili. Questa disparità non è solo ingiusta, ma rappresenta un freno allo sviluppo economico e sociale. Se il merito deve essere il criterio guida, allora è evidente che qualcosa non ha funzionato: le donne non devono avere più opportunità, ma devono avere le stesse opportunità reali di accesso alle posizioni di leadership”.

L’equità non è solo una questione di diritti ma anche di performance aziendali…
“Esattamente. L’esperienza ha dimostrato che la diversità nei consigli di amministrazione non è solo una questione di equità, ma anche di performance aziendale. Consigli più eterogenei portano a un processo decisionale più equilibrato, a una gestione più innovativa e a un miglior allineamento con le esigenze di un mercato sempre più diversificato. Tuttavia, finché il cambiamento non viene imposto come obiettivo chiaro e misurabile, il rischio è che resti relegato a mere dichiarazioni di principio. In questo scenario l’Ue ha quindi scelto di intervenire con una direttiva che impone target precisi e scadenze definite. Non si tratta di una forzatura, ma di una spinta necessaria per correggere uno squilibrio radicato e accelerare una trasformazione che, altrimenti, impiegherebbe ancora troppi anni. Il mondo sta cambiando e le aziende devono cambiare con esso: la diversità non è più un’opzione, è un fattore di crescita e competitività. L’obiettivo non è solo correggere uno squilibrio storico, ma anche creare un sistema più efficiente, dove il talento possa emergere indipendentemente dal genere. Un consiglio di amministrazione più equilibrato significa decisioni migliori, più prospettive strategiche e una governance più solida. La diversità nei ruoli apicali porta benefici concreti alle aziende, migliorandone la competitività e l’adattamento a un mercato in continua evoluzione. L’Unione Europea vuole superare le disparità ancora evidenti tra i vari Stati membri e creare un modello comune, in cui la parità di genere non sia più un’eccezione ma la norma”.
Gli stati membri dovranno recepire le regole: che ostacoli si possono incontrare in questa fase, soprattutto in Italia?
“L’adozione della Direttiva Ue 2022/2381 segna un passo importante per l’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate, ma la sua attuazione potrebbe incontrare sfide significative, sia a livello europeo che in Italia. A cominciare dalle resistenze culturali: l’Unione Europea è composta da Paesi con diversi livelli di sensibilità e regolamentazione sul tema della parità di genere. Mentre Paesi come Francia, Germania e Spagna hanno già introdotto normative nazionali simili, altri Stati membri potrebbero opporsi a una regolamentazione imposta a livello europeo, considerandola un’ingerenza nella libertà di gestione aziendale. Paesi con una cultura aziendale più tradizionale e con una minore partecipazione femminile ai ruoli apicali potrebbero ritardare l’implementazione della direttiva, trovando escamotage o adottando un approccio solo formale per rispettare i requisiti senza cambiare realmente il sistema”.
Esistono rischi legati a una possibile applicazione non uniforme delle norme o di applicazione solo formale?
“Ogni Stato membro ha un diverso sistema normativo e di governance aziendale, il che rende difficile garantire un’applicazione coerente ed efficace della Direttiva in tutta l’Ue. Alcuni Paesi potrebbero implementare meccanismi deboli di controllo e sanzione, limitando l’impatto reale della norma. Il rischio è che le aziende nominino donne nei CdA solo per rispettare le quote, senza dare loro ruoli esecutivi significativi o un reale potere decisionale. C’è poi la questione legata al fatto che alcuni Stati hanno già adottato normative sulle quote di genere nei Cda”.
E quindi?
“Il problema sarà armonizzare la direttiva con le regolamentazioni nazionali, evitando duplicazioni o contraddizioni. Alcuni Paesi potrebbero considerare l’obbligo europeo come ridondante o addirittura in conflitto con le loro leggi esistenti”.
L’esclusione delle Pmi potrebbe rappresentare un rischio per il raggiungimento degli obiettivi di parità che la Ue si è preposta?
“Questo limita il suo impatto, considerando che in molti Paesi, specialmente in Europa meridionale, il tessuto imprenditoriale è composto prevalentemente da aziende di piccole e medie dimensioni, dove la presenza femminile nei CdA è ancora molto bassa”.
L’Italia ha anticipato la normativa con la legge Golfo-Mosca: rischiamo una sovrapposizione?
“L’Italia è un caso particolare perché ha anticipato la normativa europea con la Legge Golfo-Mosca (L. 120/2011), che ha già imposto quote di genere nei CdA delle società quotate e delle aziende a partecipazione pubblica. Tuttavia, l’attuazione della Direttiva Ue potrebbe incontrare alcune criticità specifiche: l’Italia dovrà quindi valutare se armonizzare le due normative o mantenere le regole più rigide già in vigore. Inoltre, l’art. 12 della Direttiva consente agli Stati membri che abbiano già raggiunto determinati obiettivi (almeno il 30% di amministratori senza incarichi esecutivi o il 25% del totale) di sospenderne l’applicazione. L’Italia ha già superato queste soglie – il 42,8% dei CdA delle società quotate è composto da donne, secondo Consob – però le regole Ue impongono un tetto massimo del 39% per il genere più rappresentato affinché si possa richiedere la sospensione, e l’Italia lo ha già superato. Il Governo dovrà decidere se recepire comunque la Direttiva o chiedere una deroga, valutando i rischi di una eventuale regressione se la Legge Golfo-Mosca non verrà confermata dopo la sua scadenza”.