Morire sostenibilmente, come si evolve il rito funebre

Pensiamo sempre all'impatto ambientale della nostra vita, ma anche la morte è ben poco sostenibile. Oggi c'è chi si preoccupa di renderla più ecologica, con soluzioni alternative alla classica sepoltura: dal compost all'acquamazione, dalla biocremazione ai funghi

Non solo vivere – mangiare, spostarsi, vestirsi – inquina, ma anche morire. Le stesse celebrazioni funebri hanno un impatto ambientale non indifferente, dalla coltivazione dei fiori al trasporto della salma, eppure queste non reggono il confronto con la sepoltura stessa. Basti pensare che il minimo indispensabile a realizzare una sepoltura, cioè una semplice bara e la lapide, produce una quantità di anidride carbonica paragonabile a quella causata da un viaggio in auto di 4000 km. E c’è poi tutto il resto: l’imbalsamazione, ad esempio, rallenta la decomposizione del corpo del defunto per conservarlo in buone condizioni fino al giorno del funerale, con il risultato, però, che dopo la sepoltura le sostanze chimiche impiegate filtrano nel terreno, contaminandolo. I cimiteri stessi sono un problema: innanzitutto per quanto riguarda il consumo di suolo necessario per la costruzione dei loculi e per far spazio alle tombe, e poi per l’impiego di sostanze necessarie alla trattazione delle bare, oltre al cemento, spesso impiegato per realizzare delle volte nel terreno come protezione.

La fabbricazione del feretro, poi, richiede grandi quantità di legno: si calcola che annualmente in Italia si utilizzino per questo scopo oltre 50mila tonnellate di legno, che pure non è il problema maggiore dal momento che spesso si utilizzano anche dei metalli; per la sepoltura in loculo, ad esempio, la normativa italiana richiede che le casse da morto siano dotate di zincatura all’interno, che ne garantisce la tenuta ermetica. Ma non va meglio nel caso della cremazione, sempre più popolare, che per un solo corpo produce oltre 250 kg di anidride carbonica. Insomma, se è vero che non si tratta del più allegro degli argomenti – che, anzi, porta con sé paura ancestrale, mistero e tabù – considerando che muoiono in media ogni anno 600mila persone in Italia e 67 milioni al mondo, fatti un paio di calcoli si capisce immediatamente che il tema non è trascurabile, in quanto ha un impatto importante che va affrontato. E che è possibile diminuire, ad esempio adottando pratiche funerarie più attente all’ambiente, tradizionali o innovative, che stanno raccogliendo su di sé una crescente attenzione.

Dall’albero al compost: come tornare alla terra

Oggi, infatti, esistono delle alternative più ecologiche che riducono il consumo di suolo e non producono sostanze e gas inquinanti. A partire dalle “sepolture verdi”, espressione con cui si intendono comunemente le procedure che utilizzano materiali biodegradabili e non tossici: il defunto può essere, ad esempio, essre vestito con un sudario di puro cotone e sepolto in una semplice cassa di pino. Ma si può andare oltre, ad esempio scegliendo di piantare un albero sopra la propria sepoltura. Nessun problema secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che non ha trovato alcuna prova che i cadaveri rappresentino un rischio di epidemie, poiché la maggior parte degli agenti patogeni non sopravvive a lungo nel corpo umano dopo il decesso.

Esistono, però, anche procedure più complesse, magari ispirate a metodi funerari tradizionali, come l’idrolisi alcalina (o “acquamazione”), una sorta di cremazione a ridotto impatto ambientale, dal momento che impiega l’acqua per sciogliere i resti organici anziché bruciarli; è stata scelta ad esempio nel 2021 dall’arcivescovo Desmond Tutu, figura simbolo della lotta all’apartheid in Sudafrica. Ma non è, in realtà, una novità del nostro tempo: nella cultura tradizionale hawaiana una forma di cremazione ad acqua (vulcanica, in questo caso) è stata praticata per migliaia di anni; tale tradizione in epoca recente è caduta in disuso, ma nel luglio scorso lo stato americano delle Hawaii ha legalizzato questo procedimento, dandogli un riconoscimento ufficiale e riportandolo in auge, seppure in forma modernizzata con macchine che pompano un fluido alcalino riscaldato in cui è immerso il corpo per un tempo compreso tra le quattro e le sei ore, accelerando esponenzialmente il naturale processo di decomposizione. I corpi che affrontano questa procedura possono essere imbalsamati o meno e vengono vestiti con materialli naturali al 100%; dopo la completa disgregazione, rimangono solo gli elementi non organici, come otturazioni dentarie, protesi, pacemaker e altri impianti e le ossa, che vengono essiccate, polverizzate e restituite alla famiglia in un’urna, proprio come nella cremazione convenzionale. L’unico sottoprodotto è un’acqua sterile e non tossica, che può essere riciclata.

Esiste persino un’alternativa che sfrutta le innumerevoli qualità dei funghi – tra le quali ne abbiamo già scoperte alcune, non solo in cucina ma anche in edilizia e nel settore tessile – con i quali si realizza una sorta di tuta in cui viene inserito il corpo, che verrebbe quindi scomposto in sostanze elementari, mentre gli inquinanti verrebbero assorbiti. Su quest’opzione restano alcune perplessità, ad esempio relative alla reale efficacia dell’azione micotica nelle condizioni di assenza di luce tipiche dell’interramento, ma senza dubbio questa opzione funeraria testimonia i tentativi di esplorare alternative ecologiche al poco sostenibile fine vita più convenzionale. Lo testimonia anche, tra le altre cose, la popolarità crescente di possibilità curiose come il compostaggio, che di recente è stato legalizzato nello Stato di New York, il sesto degli Stati Uniti a farlo. Questo procedimento trasforma i resti del corpo in terra tramite un processo strettamente controllato, che ha poco a che fare con il compostaggio casalingo che si fa con gli scarti della cucina: in un contenitore sigillato, il corpo viene avvolto in un mix di materiali naturali come trucioli di legno e paglia, dove i batteri attivano la decomposizione per circa un mese, mentre dei ventilatori soffiano ossigeno nel contenitore. Dopo circa 30-50 giorni, si procede a eliminare le ossa ed eventuali elementi non organici. Il risultato finale è circa un metro cubo di compost che la famiglia del defunto può utilizzare – ad esempio spargendola nel proprio giardino – o donare a cause ambientali. Sebbene altamente evocativo, questo procedimento per funzionare richiede energia, per cui non si può considerare un metodo a impatto zero, anche se indubbiamente pesa sull’ambiente molto meno del tradizionale interramento del feretro.

La simbologia eco di Capsula Mundi

Altrettanto evocativa è Capsula Mundi, un’urna biodegradabile che promette di essere l’alternativa sostenibile – e anche piuttosto poetica – alla tradizionale urna per le ceneri. Appare come un grosso uovo, in cui le ceneri vengono inserite attraverso un largo foro, che viene poi richiuso; il tutto viene interrato e al di sopra vi si pianta un albero, scelto in vita dal defunto nel rispetto dell’ecosistema locale, per dare compimento anche all’immagine di ciclicità della vita e continuità con la natura che l’albero rappresenta nell’immaginario collettivo; questa diventerebbe ancora più potente nel caso si giungesse alla realizzazione anche della Capsula per il corpo stesso, e non solo per le ceneri, che attualmente è in fase di studio. Si tratta di una soluzione ideata dai designer Anna Citelli e Raoul Bretzel e prodotta in Italia in modo semi-artigianale. Il concetto, oltre all’immagine simbolica dell’uovo e dell’albero, propone un percorso opposto a quello della bara convenzionale, per produrre la quale si abbattono alberi: in questo caso li si pianta, immaginando che, “albero dopo albero, il cimitero diventerà un bosco”, come si legge sul sito. Un luogo, quindi, altrettanto sacro e rispettabile del classico camposanto, ma aperto, sereno e rigoglioso, che contribuisca anche, magari, a ridurre i tabù che circondano la morte e che ce ne fanno avere così paura. Oltre a produrre ossigeno catturando anidride carbonica.

C’è solo un piccolo dettaglio: cimiteri di questo tipo e le sepolture verdi, almeno per ora, in Italia sono illegali, in funzione di una normativa cimiteriale che negli ultimi anni sta, per lo meno, vedendo semplificato sempre di più l’utilizzo di urne biodegradabili, che sono di fatto equiparate alla dispersione delle ceneri e quindi sotterrabili su terreni pubblici o privati purché distanti da centri abitati e corsi d’acqua. A rendere realtà questa poetica immagine, fornendo in tutta legalità il servizio sono società specializzate, come Boschi Vivi, una cooperativa con sede a Genova che dà la possibilità – oltre che di adottare un albero per sostenerne la gestione – di interrare le ceneri dei propri cari estinti piantandovi un albero, in un vero bosco fatto di piante intitolate a singoli individui, ma anche coppie o intere famiglie. Per concludere la propria esistenza dando nutrimento a una nuova vita, e senza impattare sull’ambiente.

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