Sessant’anni fa esatti, il 9 ottobre del 1963 una delle peggiori tragedie della storia italiana colpì la comunità di Longarone, un piccolo comune nell’attuale provincia di Belluno che fa parte del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi. Qui, una frana provocò uno dei disastri idrogeologici più devastanti del XX secolo, provocando la morte di oltre 2.000 persone e cambiando radicalmente la sorte di un intero territorio, duramente impattato dalla tragedia. Ben lontano da essere conseguenza di una semplice fatalità, però, dietro all’incidente del Vajont ci sono delle responsabilità su cui ancora oggi, decenni dopo, vale la pena fare chiarezza; quella tragedia deve essere una lezione indelebile su diversi aspetti cruciali della nostra società moderna: la sicurezza delle infrastrutture, la gestione dell’ambiente e la responsabilità delle autorità. Il modo migliore per omaggiare e ricordare tutti coloro che sono morti a causa del Vajont è, quindi, riflettere su quegli eventi e su cosa possono continuare a insegnarci sulle fragilità del nostro territorio e su cosa dobbiamo fare per proteggerlo, tanto più oggi che i problemi ambientali e le difficoltà e i limiti delle interazioni tra uomo e natura sono evidenti.
I fatti
All’origine della tragedia del Vajont – nome di un torrente che corre tra Friuli occidentale e Veneto orientale – si situa la costruzione, progettata negli anni Cinquanta, di una diga, il “Grande Vajont” da parte della SADE, la Società Adriatica di Elettricità fondata nel 1905 a Venezia e attiva soprattutto nella produzione elettrica da fonti termo e idroelettriche. I lavori di costruzione della diga ad arco, alta 262 metri, nella valle del fiume Vajont, situata nella parte nord tra i territori di Pordenone e Belluno, terminarono nel 1961 e furono funestati fin dall’inizio dal sinistro presagio di un incidente avvenuto nel 1959 presso Pontesei, dove una frana di 3 milioni di metri cubi di roccia era scivolata nel lago sottostante, travolgendo un operaio.
L’ambizioso progetto aveva lo scopo di generare energia idroelettrica per l’Italia settentrionale, ma il territorio in cui fu realizzato era geologicamente instabile, caratterizzato da rocce franabili. E infatti alle 22:39 del 9 ottobre 1963 circa 260 milioni di metri cubi di roccia precipitarono dal monte Toc, nelle Prealpi bellunesi, alla velocità di 110 km orari, nell’invaso del lago, le cui acque tracimarono con onde alte più di 250 m di altezza, praticamente uno tsunami; la prima onda invase il piccolo paese di Casso e ricadde sulla frana, formando il laghetto di Massalezza; la seconda raggiunse la frazione di Erto e la terza scavalcò la diga, che resistette, e colpì il paese di Longarone, travolgendolo in pieno e, di fatto, spazzandolo via. Alcuni danni si ebbero in tutti i paesi e i borghi della zona, fino a 50 km dalla diga, per un totale di circa 2.000 decessi, anche se furono recuperati “solo” 1.500 cadaveri: di molti si perse traccia.
La sicurezza delle infrastrutture
Una frana potrebbe sembrare una tragica fatalità, ma se si osservano con più attenzione i fatti diventa evidente che la scelta di costruire una diga tanto invasiva proprio in quel posto non fu affatto una buona idea, che fu comunque perseguita nel nome della “sicurezza” energetica, nel contesto storico della crisi petrolifera internazionale che spinse le autorità italiane a puntare sulla diversificazione energetica e in particolare sull’energia idroelettrica, che oggi definiremmo rinnovabile ed ecologica. Si era, inoltre, nell’epoca del boom economico che l’Italia visse per alcuni decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, una fase in cui le campagne e le montagne si svuotarono a favore dei centri urbani, il territorio nazionale fu sempre più cementificato e si avviò un’intensa costruzione di infrastrutture e di manipolazione del territorio naturale, in diversi casi senza troppa attenzione all’opportunità di certe opere, quasi in un’ubriacatura di sviluppo e progresso, anche ai danni degli equilibri naturali.
È su questo sfondo che le considerazioni sulla fragilità geologica della zona del Vajont e del monte Toc vennero ignorate dalle autorità, nonostante fosse chiara: si vollero ignorare gli avvertimenti di geologi ed esperti, che sottolinearono che, se il progetto della diga era solido, tanto che resistette all’impatto della frana e dello tsunami conseguente, la montagna sotto lo strato calcareo era fatta di un sottile strato di argilla, che oltre che fragile è un materiale impermeabile, che a causa delle infiltrazioni dovute alla presenza del bacino d’acqua fu all’origine della frana del monte Toc. Anche la giornalista Tina Merlin, originaria della zona, aveva continuato – nonostante le pressioni ricevute e il rifiuto di vari giornali di pubblicare i suoi articoli scomodi – a parlare e scrivere dei pericoli dell’infrastruttura e delle preoccupanti avvisaglie che il territorio stava dando. Non fu ascoltata e fu, anzi, sostanzialmente ignorata per anni, prima di essere ricordata dal lavoro dell’autore e regista teatrale Marco Paolini – oggi impegnato, assieme al filosofo della scienza e biologo dell’evoluzione Telmo Pievani, con la trasmissione televisiva La fabbrica del mondo, dedicata proprio alle tematiche ambientali – culminato nello spettacolo di teatro civile Il racconto del Vajont.
Negli anni precedenti, inoltre, c’erano già state altre frane e nel monte Toc erano state riscontrate grosse crepe, come non solo Merlin ma le stesse popolazioni locali si erano accorte e avevano lamentato. Ecco perché le Nazioni Unite, nel 2008, definirono quello del Vajont “un caso esemplare di disastro evitabile”, il primo di dieci eventi causati dalla scarsa comprensione delle scienze della terra e dal fallimento di ingegneri e geologi.
Una dura lezione da imparare
La tragedia del Vajont è una pagina dolorosa nella storia italiana, ma può anche essere vista come una lezione preziosa, che deve farci imparare dalla nostra storia per evitare errori simili in futuro. La sicurezza delle infrastrutture, la gestione dell’ambiente e la responsabilità delle autorità dovrebbero essere al centro delle nostre decisioni e azioni: solo in questo modo è possibile davvero onorare la memoria delle vittime del Vajont e prevenire ulteriori tragedie di questo genere. Dovremmo vedere il Vajont come un monito contro la corruzione e la negligenza che possono mettere a rischio la vita umana in nome del profitto, ricordandoci che non siamo i padroni del Pianeta e che il nostro benessere e la nostra prosperità possono esserci solo nel rispetto della natura, di cui è indispensabile ascoltare i segnali. Questa lezione ci invita a considerare attentamente l’impatto ambientale delle nostre azioni, a bilanciare le esigenze di sviluppo e progresso con quelle di rispetto, conservazione e protezione dell’ambiente naturale.