Con scarsa originalità, è stato definito l’enfant terrible della moda francese. Succedeva negli anni ’90 quando lascia Nancy per studiare design a Parigi, e dopo tre mesi abbandona l’accademia perché trova l’insegnamento arido e noioso, “Era come studiare diritto”. Poco male: diploma o non diploma, finisce a fare da assistente a John Galliano. Di sicuro una bella palestra. Seguono esperienze con Kenzo, Sonya Rykiel, Jean-Paul Gaultier, che, come ricorda in un’intervista rilasciata a Vogue: “Non parlavano mai di business, ma di sogno, magia, allegria”.
Il ragazzo ha la stoffa giusta (è proprio il caso di dirlo): da quando ha 11 anni propone alle compagne di classe di disegnare vestiti per loro, nel tentativo di ingraziarsele.
Compensa la mancanza di strumenti e tecnica con l’inventiva: “Nessun punto metallico, nessuna cucitura. Non sapevo cucire, quindi usavo solo nastro adesivo!”.
Con lo stesso spirito esplorativo, nel 2002 si lancia nel mondo degli accessori: “Ho iniziato a fare una borsa: ho preso una pelle e l’ho lavorata come un vestito, ecco perché la borsa è uscita tutta morbida”.
Ma oltre a essere morbide, come sono le borse di Jérôme Dreyfuss?
Bisognerebbe chiederlo alla sua musa ispiratrice e cliente più affezionata: Isabel Marant, che incidentalmente è anche sua moglie.
I due lavorano in grandi atelier in centro dal lunedì al venerdì ma ogni fine settimana si trasferiscono in una casa in campagna senza luce né acqua.
Come la loro moda, sono deliziosamente boho-chic: l’etichetta di un benessere rilassato, riassunto nel sedersi ai tavolini dei café della rive gauche parigina o fare la spesa al mercato di un paese in Provenza, con un cesto in vimini da cui spuntano baguette.
Un nomadismo che gravita sempre intorno agli stessi punti, uno stile di vita per spiriti liberi che tornano spesso nei luoghi del cuore.
Meno, meglio e con magia
Fin dalle prime creazioni, Jérôme Dreyfuss ha dedicato il suo lavoro alle donne: le sue borse sono morbide ed elastiche per adattarsi al corpo e ai suoi movimenti senza costringerlo.
“Quando vedo una borsa indossata da una donna, penso che vorrei essere al suo posto”. Per questo ogni modello ha un nome maschile: sono accessori che desiderano stare vicini alle donne e servirle. Come partner fedeli.
Lo stilista usa le stesse armi di seduzione di quando aveva 11 anni: la moda e l’ironia.
Confrontandosi con la moglie e le amiche, cerca di capire le caratteristiche che deve avere un accessorio per diventare indispensabile, i bisogni che deve soddisfare. È il caso dello specchietto inserito nella patta, per controllare discretamente il make-up o della mini-pila, per cercare le chiavi di casa quando si rientra in piena notte.
Artigiano del lusso
Jérôme Dreyfuss ha bisogno di sporcarsi le mani e si considera un artigiano.
Secondo lui, l’alta moda dà la precedenza al business rispetto alla qualità. Il lusso è accessibile alla grande distribuzione grazie a capi e accessori realizzati in Cina a cui viene aggiunta l’etichetta “made in France”. Questi prodotti realizzati in fretta sono meno curati di quelli provenienti dai piccoli laboratori artigiani, che di certo non possono battere la concorrenza.
Per opporsi al sistema, non ha stock. Spiega così la sua decisione: “Le mie borse sono quasi interamente fatte a mano, in Europa e nel Maghreb. Chiedere a un artigiano di produrne molte più di quelle ordinate per venderle scontate è irrispettoso del lavoro. E significa spingere la gente a comprare quando non ne ha bisogno”.
L’acquisto compulsivo è l’opposto di quella sobrietà dei consumi che Dreyfuss condivide con Isabel Marant: entrambi invitano i propri clienti ad acquistare poco e a puntare sulla qualità. Il messaggio è: “Vieni a darti piacere una volta l’anno, scegli con cura un solo pezzo. Altrimenti se la vita non ti soddisfa e senti il bisogno di comprare cinque borse, vai da uno psicanalista”.
Parola di lupetto
Le sue borse sono quasi tutte in pelle, eppure Jérôme Dreyfuss si professa ecologista. Come potrebbe non esserlo, dopo tanti anni passati negli scout, da bambino? Una cosa non esclude l’altra, quando i materiali e le lavorazioni rispettano la natura.
Tutte le pelli provengono da animali uccisi per la carne. Ogni anno l’industria alimentare globale genera 17 milioni di chilometri quadrati di materia prima. La scelta sostenibile è recuperarla. Qual è il passaggio “ecologista” in più? Spingere gli allevatori a crescere gli animali all’aria aperta, con cibo sano, senza antibiotici. E poi ovviamente eliminare il cromo nella concia, usando tinture vegetali. Le pelli promosse come vegane non sono ancora la soluzione. Dreyfuss commenta: “Un designer è onesto quando spiega che per rendere più resistente il cotone o i cuoi ricavati da funghi, ananas e cactus bisogna plastificarli, rivestendoli con un sottile strato di poliuretano, cioè petrolio”.
Cercare di contenere l’impatto negativo sul pianeta è un esercizio complicato quando si lavora in un settore in cui bisogna rinnovarsi costantemente disegnando svariate collezioni all’anno e consegnare i capi più ai punti vendita nel più breve tempo possibile. Eppure, basta l’accortezza di utilizzare imballaggi piatti per aumentare il numero di pezzi trasportati a parità di volume.
Una borsa di pelle di design può essere quindi etica? Io direi di sì.
A noi consumatori va la responsabilità di premiare con l’acquisto i marchi che si impegnano a essere sostenibili. E quasi sempre ci riescono.