Un recente rapporto di Stand.earth e del Center for International Environmental Law ha rivelato che oltre 25 marchi globali, tra cui Coca-Cola, Nestlé, Unilever e PepsiCo, utilizzano imballaggi in plastica monouso derivati da processi di fracking nel bacino del Permiano, in Texas. Nonostante gli impegni pubblici per ridurre l’uso di plastica vergine, questi brand continuano a dipendere da fornitori che producono polietilene e PET a partire da etano estratto tramite fratturazione idraulica.
Il fracking, o fratturazione idraulica, è una tecnica di estrazione di petrolio e gas naturale che consiste nell’iniettare acqua, sabbia e sostanze chimiche nel sottosuolo per fratturare le rocce e liberare gli idrocarburi intrappolati. Sebbene abbia favorito l’indipendenza energetica in paesi come gli Stati Uniti, è una pratica altamente controversa per i suoi impatti ambientali: può contaminare le falde acquifere, generare emissioni climalteranti, causare piccoli terremoti e consumare grandi quantità d’acqua. Un aspetto meno noto, ma sempre più critico, è il legame con la produzione di plastica: l’etano estratto con il fracking viene utilizzato per creare plastica vergine, in particolare per gli imballaggi monouso. Così, dietro una bottiglia o una confezione apparentemente innocua, si nasconde spesso una filiera che parte da una delle tecnologie estrattive più inquinanti del nostro tempo.
La mappa delle connessioni
Stand.earth ha sviluppato una “Fracked Plastics Map“, uno strumento interattivo che traccia le connessioni tra marchi di consumo, produttori di plastica e aziende di fracking. Ad esempio, Coca-Cola presenta dieci collegamenti nella sua catena di approvvigionamento con aziende petrolchimiche, seguita da Unilever, Nestlé e PepsiCo.

Implicazioni ambientali
Secondo il Comitato Internazionale di Governance sulla Plastica delle Nazioni Unite, il 98% dei prodotti in plastica monouso è prodotto da combustibili fossili. Entro il 2040, le emissioni di gas serra associate a questi prodotti rappresenteranno il 19% del budget globale di carbonio, compromettendo gli sforzi per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C.
Nonostante le dichiarazioni di sostenibilità, molte aziende continuano a utilizzare plastica derivata da processi altamente inquinanti. Devyani Singh di Stand.earth sottolinea che, mentre l’attenzione climatica si concentra su trasporti ed energia, i petrolchimici stanno diventando il principale motore della domanda di combustibili fossili.
Cosa possiamo fare
Di fronte a un sistema produttivo ancora fortemente legato alla plastica vergine e ai combustibili fossili, è fondamentale che ciascuno faccia la propria parte. Come consumatori, possiamo orientare le nostre scelte verso prodotti con imballaggi sostenibili, preferendo marchi che dimostrano trasparenza nella loro catena di approvvigionamento. Le aziende, da parte loro, hanno l’opportunità — e ormai la responsabilità — di investire seriamente in soluzioni alternative, riducendo la dipendenza dalla plastica di origine fossile e accelerando l’adozione di materiali riciclati e circolari. Ma perché questo cambiamento sia davvero efficace, serve anche una spinta a livello normativo: politiche pubbliche che incentivino l’innovazione sostenibile e che pongano limiti chiari all’utilizzo di materiali derivati da pratiche come il fracking. Solo con un’azione congiunta e sistemica, che coinvolga cittadini, imprese e istituzioni, possiamo sperare di spezzare il ciclo tossico che lega la plastica usa e getta all’inquinamento ambientale e climatico.
Per esplorare le connessioni tra marchi e fracking, visita la Fracked Plastics Map.