Non so se ho già parlato del legame speciale che ho con l’Olanda, paese dove vive un pezzo della mia famiglia e ha sede un’azienda con cui collaboro. Quando mia sorella studiava al Politecnico di Milano ha fatto l’Erasmus nei Paesi Bassi, e se ne è innamorata a tal punto che dopo qualche anno vi si è trasferita con marito e figlio. Vivono a Rotterdam, che dagli anni della ricostruzione post-bellica è diventata a tutti gli effetti un parco giochi per architetti.
Seconda vita ai materiali
A un’ora di treno si trova Eindhoven, città famosa per aver dato i natali alla Philips nel 1891 e nel 1967 a Piet Hein Eek, uno dei designer più celebrati (e corteggiati) degli ultimi vent’anni. I suoi mobili e accessori si trovano non solo in blasonati negozi di arredamento ma anche in numerose gallerie d’arte sparse in tutto il mondo. Per spiegarvi l’aura di esclusività che lo circonda, in Italia, è arrivato grazie a Rossana Orlandi, curatrice le cui scelte hanno un impatto di portata paragonabile a quelle che 10 Corso Como opera nella moda (solo per citare il concept store per antonomasia).
Ogni designer ha un pezzo iconico, e quello di Piet Hein Eek corrisponde al suo progetto di laurea. Nel 1990, infatti, quand’era ancora studente dell’Academy for Industrial Design (sempre a Eindhoven, città che non ha mai abbandonato a favore di mete più trendy) aveva realizzato una credenza assemblando pezzi di legno di scarto in modo da metterne in risalto le qualità naturali. La ruvida bellezza dell’effetto patchwork data dalla varietà di colori e texture degli elementi che lo compongono aveva colpito i suoi insegnanti, nonostante lo stile imperante ai tempi fosse il minimalismo. E ancora adesso, trent’anni e mille progetti più tardi, i suoi Scrap Wood Cupboard sono ancora amatissimi.
Leggenda vuole che sia nato prima l’oggetto e poi la riflessione sullo stesso. Hein Eek racconta: “Stavo passeggiando in un deposito di legno dismesso. Cercavo un pezzo adatto per riparare la credenza di mia sorella, e mi sono accorto che il legno vecchio era più bello, più interessante di quello nuovo. Siamo stati abituati a desiderare prodotti di massa che non presentano nemmeno una pecca e sono tutti identici fra loro. Io invece ho sempre pensato che nel design ci fosse spazio per l’imperfezione. Se la bellezza di un materiale sta nella vita che si porta dentro, questa qualità si trasmette anche all’oggetto in cui lo trasformiamo. E per la stessa logica, se il mobile che costruisco si graffia o scolorisce il suo valore estetico aumenta”.
Il dialogo tra scarto e sostenibilità è uno dei temi ricorrenti del suo lavoro, insieme alla tensione tra tradizione e modernità. I complementi d’arredo che disegna sono realizzati con materiali economici che vengono però lavorati con pazienza da artigiani iper-specializzati. La maestria e il tempo dedicato a ogni pezzo ne sublima la semplicità trasformandolo in un’opera d’arte. È così che il recupero diventa design.
Con il suo approccio, ha operato una piccola rivoluzione in campo economico, riportando l’attenzione sulla lavorazione artigianale. Come ha raccontato in una recente intervista: “Uno dei principi base della società moderna è che se usi meno manodopera, ricorrendo alla produzione industriale, risparmi denaro. Io ho pensato di ribaltare questo principio utilizzando materiali che la gente getterebbe e modificandoli attraverso quanto più lavoro possibile. Il cliente si accorge dell’attenzione che finisce in ogni singolo pezzo, ed è disposto a pagare per il tempo investito, perché ne riconosce il valore. Per costruire i mobili che disegno ci vuole la pazienza di un santo, una sfida anacronistica in un periodo storico in cui la risorsa più preziosa di cui disponiamo è proprio il tempo”.
Il rovesciamento è il modus operandi di Piet Hein Eek, che spiega: “Nei processi industriali si prende il materiale grezzo, lo si usa per costruirci qualcosa e si butta via quello che avanza. Quello che la maggior parte del mondo considera scarto rappresenta la nostra materia prima, ed è così importante per noi che abbiamo trovato un modo per riutilizzare anche i pezzi più piccoli che avanzano dopo la produzione. In pratica, non buttiamo via niente”.
Un esempio del lavoro certosino dei suoi collaboratori, paragonabile alla dedizione degli ebanisti barocchi, è Waste 40×40, una collezione che raccoglie mobili formati da migliaia di parti, come un puzzle. Tessere quadrate di 4 cm di lato vengono impilate come in un mosaico tridimensionale, assemblate, inchiodate una ad una e ricoperte da uno spesso strato di resina. Questa complessa lavorazione dona un effetto pixelato agli oggetti, che incontra il gusto dei fan dei videogiochi anni ’80.
INDUSTRIELL, la collezione per IKEA
Tappa quasi obbligata per un designer è la capsule collection in esclusiva per una grande distributore. Piet Hein Eek l’ha raggiunta nel 2017, quando ha creato per IKEA una serie di prodotti che spaziava dai mobili in legno e vimini fino ai tessili, passando da piatti e bicchieri.
L’obiettivo di INDUSTRIELL, questo il nome della collezione, era dare un tocco umano agli oggetti prodotti in serie, e di offrire per poche settimane pezzi unici a un prezzo accessibile.
Basandosi sul concetto hand made – serial produced, il ribelle designer olandese è riuscito a comunicare al colosso svedese l’esigenza di mostrare il rispetto per il materiale grezzo e l’artigianato. Per questo, i vasi in ceramica utilizzati per creare gli stampi sono stati realizzati a mano, e i mobili in legno di pino hanno messo in bella mostra quelli che solitamente vengono bollati come difetti, per esempio i nodi e le deviazioni nella struttura dell’essenza. Per creare il tessuto destinato alla biancheria per la casa, i telai obbligati a riprodurre righe tracciate a mano e quindi non perfettamente simmetriche sono stati messi a dura prova. Un altro esempio di come l’imperfezione può essere valorizzata, donando carattere di unicità al risultato.
Casa e bottega
La carriera di Piet Hein Eek ha preso forma nella città in cui è nato e ha studiato. E a un paio di chilometri dal centro di Eindhoven, questo cittadino illustre ha fondato il suo quartier generale, ristrutturando una ex fabbrica di lampadine (ovviamente costruita dalla Philips). “Non doveva essere così grande” commenta, “ma era l’unico edificio che poteva ospitare il laboratorio, il vero cuore di ciò che facciamo”.
Si tratta di uno spazio multifunzione di 10.000 metri quadri in cui le sue idee nascono e diventano tridimensionali. Insieme allo studio, allo showroom e al laboratorio hanno trovato spazio (e vasto) un concept store, un ristorante, un hotel, una galleria d’arte e perfino un chiosco di patatine fritte. Il padrone di casa lo descrive così: “Tutto quello che volevamo fare, l’abbiamo fatto da subito in grande: la mensa pensata come un ristorante, i quadri appesi nello showroom selezionati per la galleria d’arte e gli oggetti che ci piacevano raccolti in un negozio”.
È un luogo incantato in cui io, da turista più che da cliente, torno sempre volentieri. Vuoi per l’aria da loft, per la quantità impensabile di oggetti unici che contiene o l’attenzione con cui vengono mixati a prodotti di marchi che ne condividono la filosofia.
Passeggiando per i diversi capannoni si possono osservare, attraverso ampie vetrate, l’open space dei progettisti e l’atelier degli artigiani. E la sensazione è sempre quella di una struttura in via di definizione.
Trasformista come il suo ideatore.