Save the Duck, come essere aziende della moda sostenibile

Silvia Mazzanti, Product and Sustainability Manager di Save The Duck: “Bisogna superare la logica del green washing"

Moda sostenibile, green fashion, se ne parla ormai da anni, ma in pochi hanno capito il vero valore. Un capo o una collezione ottenuti da processi ecosostenibili possono definire un brand green?

“È un primo passo, un inizio, ma non può essere un solo capo o collezione a far definire l’azienda sostenibile”, ha spiegato Silvia Mazzanti, Product and sustainability manager di Save The Duck. “La speranza è che il settore moda – ha continuato Silvia Mazzanti – che ad oggi ha dimostrato una forma mentis un po’ vecchia, cominci a superare la logica del green washing e cominci a fare scelte più coerenti. Ora sono gli stessi utenti finali a chiederlo, non è più come negli anni Novanta che chi comprava subiva le tendenze dettate dai brand, c’è più consapevolezza negli acquisti. Durante la pandemia, con la chiusura dei negozi, il cliente è diventato ancora più esigente: non potendo più toccare con mano il prodotto, va a valutare online ogni dettaglio, chiede informazioni su tutto quello che può aiutarlo a capire il valore, fa domande dettagliate, persino sulle sostanze chimiche utilizzate. Prima o poi le aziende capiranno che per rimanere al passo devono seguire questa direzione perché è il mercato a chiederlo e il settore ha bisogno di rinnovarsi”.

Silvia Mazzanti, Product and sustainability manager di Save The Duck

Save The Duck, il cui nome significa letteralmente “salviamo l’oca” è il brand nato nel 2012, fondato da Nicolas Bargi, nipote di Foresto Bargi proprietario dell’azienda Forest, con il dichiarato impegno di creare un prodotto nel rispetto degli animali, dell’ambiente e delle persone. Il modello di business trasparente e attento alla gestione responsabile delle risorse ha visto la sua naturale consacrazione con l’assunzione dello status giuridico di società benefit nel 2018 e con la certificazione B Corp, nel 2019. È stata la prima azienda del mondo fashion in Italia a diventare benefit corporation riconosciuta dall’ente internazionale B Lab e ad aver ottenuto diversi riconoscimenti per il suo impegno ecosostenibile e i suoi prodotti al 100 per 100 animal cruelty free, che non utilizzano piume, pellami, pellicce e materiali di derivazione animale. A guidare il percorso che ha portato Save the Duck a ottenere la certificazione B Corp con punteggio di 95 (80 è il minimo) è stata proprio Silvia Mazzanti che, dopo un’esperienza ventennale nello sviluppo di prodotto, è approdata, quattro anni fa, nell’azienda milanese nel ruolo di sustainability manager. “Chi si occupa di sostenibilità – ha spiegato Silvia Mazzanti – deve anche occuparsi del prodotto. Bisogna conoscere bene la supply chain (ndr. la catena dei fornitori) nel settore e capire ogni passaggio della produzione”.

Come nasce l’impegno di Save the Duck a essere un’azienda sostenibile?


Save the Duck nasce con un dna già improntato alla sostenibilità, alla cura degli animali e delle persone, con particolare attenzione ai nostri partner e fornitori nella produzione dai quali esigiamo requisiti precisi. Ci siamo impegnati sin dall’inizio a portare avanti l’obiettivo di produrre nel rispetto della natura, riducendo il nostro impatto ambientale, sostenendo i diritti delle persone, promuovendo l’inclusione e il rispetto, ma l’abbiamo fatto
un po’ in sordina. Qualche anno fa abbiamo deciso di raccontare un po’ di più perché sia gli investitori che i clienti ci chiedevano informazioni ed erano interessati al nostro impegno, perciò abbiamo cercato anche una certificazione che attestasse la bontà dei nostri processi. In prima istanza abbiamo ritenuto importante diventare società benefit, pensavamo che questa potesse essere già una grande occasione perché cambiare lo statuto, rendere ufficiale la centralità del beneficio a 360 gradi nel nostro business che si accompagna anche al profitto, in modo trasparente e in termini legali, è stato un passo importante. Nel 2018 è stato redatto il primo bilancio sostenibile ed è iniziata l’avventura di grande divulgazione. Abbiamo cercato poi anche qualcuno che potesse andare a valutare fase per fase quello che facciamo in azienda perciò abbiamo scelto B Corp, che è la più olistica delle certificazioni. È stato un duro lavoro ma che ci ha dato tante soddisfazioni, è stato anche per noi un grande strumento di autoanalisi e di autocritica”.

Essere una B Corp non è soltanto ottenere un sigillo, cosa significa per voi nella pratica?


“Diventare B Corporation per noi è stata una fonte incredibile di contatti, di condivisione di informazioni e di progetti, avere la possibilità di incontrare aziende di settori diversi che parlano delle loro iniziative benefit. C’è una grande community molto attiva e frizzante, ci incontriamo ogni mese in un meeting virtuale con tutte le B Corp italiane (circa 115, ndr), parliamo dell’avanzamento dei progetti e accogliamo le new entry. È un momento di ispirazione e abbiamo la possibilità di partecipare a diversi working group. Ci sono circa 3.850 B Corp nel mondo a fronte di 140 mila aziende a che si approcciano al processo di B Impact Assessment, ma la maggior parte raggiunge un punteggio di 50, insufficiente ad ottenere la certificazione. È, quindi, un percorso serio e stimolante“.

Logo save the duck
Il logo di Save th Duck

Per molti non è il momento di investire in sostenibilità, quali sono i ritorni economici?


“Se si ha una visione a lungo termine la sostenibilità ripaga anche in termini economici, ma già a breve termine si vedono i risultati. Noi non abbiamo subito il gap sul prodotto perché siamo già partiti così. Sono investimenti funzionali al benessere dell’azienda, servono non soltanto per il brand ma anche per la crescita interna. Sono le persone che fanno i prodotti e più il gruppo è armonico e felice, maggiori sono i risultati“.

L’impegno verso la salvaguardia dell’ambiente e degli animali è abbastanza noto, cosa fate per migliorare la vita delle persone?


“Save The Duck ha da tempo sposato la business social compliance iniziative e ci appoggiamo ad Amfori che è un organismo indipendente ed esterno di valutazione che monitora le prestazioni di responsabilità sociale nella catena di fornitura. Sono protocolli internazionali che l’azienda fornitrice può usare anche con altri brand. Abbiamo, inoltre, un piano di welfare per i dipendenti che vanta un’ampia gamma di attività, formazione, supporto alla famiglia, vacanze, in passato c’erano lezioni di yoga serale, abbiamo fatto iniziative di sostegno durante la pandemia Covid-19 (supporto sanitario e psicologico)”.

Quali sono i progetti sui quali vi concentrerete in futuro?


“Un anno fa abbiamo comunicato l’ingresso nell’United Nations Global Compact (UNGC), iniziativa lanciata nel 1999 da Kofi Annan, allora segretario generale delle Nazioni Unite, con l’obiettivo di promuovere su scala globale la cultura della responsabilità sociale d’impresa. Abbiamo preso parte alla campagna #UnlockTheChange, un progetto nato all’interno del movimento B Corp per sensibilizzare le imprese e i cittadini sulla necessità di un cambio di paradigma, verso un nuovo modello economico che vada oltre al profitto e che consideri anche l’impatto positivo di un’azienda sulle persone, sull’ambiente e su tutti gli stakeholders. Così come previsto nel secondo Bilancio di sostenibilità, stiamo lavorando insieme con altre B Corp di tutto il mondo al progetto Net-zero emissions, alla riduzione delle emissioni di gas serra, del consumo energetico e dell’impatto ambientale delle acque di scarico derivanti dal ciclo produttivo.
Abbiamo adottato i Women’s Empowerment Principles (WEPs), l’insieme di principi che guidano le aziende a promuovere l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne sul posto di lavoro e nella comunità, istituiti da United Nations Global Compact e da UN Women. Poi nei prossimi mesi ci saranno altre novità che per ora non posso rivelare”.

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