Shoreline, la cooperativa scientifica al servizio del mare

A Trieste dal 1988 questa cooperativa scientifica monitora lo stato di salute del mare e ne difende la biodiversità. Nell'intervista ci raccontano in cosa consiste il loro lavoro

Il mare: orizzonte di viaggi, paesaggio che ci riconnette alla natura, ma anche ecosistema vivace e delicato e risorsa preziosa. Un elemento così complesso è difficilmente definibile. Di certo non è immobile nel tempo, anzi: il mare subisce l’impatto delle attività umane, nel bene e nel male, ponendoci interrogativi e preoccupazioni. Lo sanno bene i membri di Shoreline, società cooperativa che si occupa di ricerca e monitoraggio dell’ambiente marino, fornendo consulenza tecnica e scientifica ad aziende e istituzioni locali e nazionali e operando nel settore della divulgazione e della formazione. Il tutto in un’area molto particolare: quella del Golfo di Trieste, nell’Adriatico nord-orientale, dalla sua sede nell’Area Science Park di Padriciano, un vero e proprio hub di start-up, aziende avviate e centri di ricerca di altissimo livello, che collaborano in varia misura con l’università e il mondo della ricerca scientifica, una delle punte di diamante di questo territorio.

Carlo Franzosini e Saul Ciriaco, rispettivamente presidente e vicepresidente di Shoreline, il mare l’hanno visto parecchio in tutti questi anni, dal 1988, anno di fondazione della società, in cui hanno collezionato collaborazioni con il Ministero dell’Ambiente e quello delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, ma anche con Federparchi e l’Osservatorio nazionale della Pesca-CRES, tra gli altri. Abbiamo parlato con i due esperti, che ci hanno raccontato la nascita di Shoreline.

Carlo Franzosini: «Shoreline è nata nel 1988 in un settore di cui fino a quel momento si occupavano associazioni, volontari, studenti, guide subacquee e ricercatori, il cui impegno ha portato, nel 1986, all’istituzione della prima Area Marina Protetta in Italia, quella di Miramare. Un gruppo di quei volontari ha dato vita poi alla società cooperativa Shoreline, di cui oggi fanno parte 12 collaboratori».

Oggi quali sono le attività più importanti che svolgete?

Carlo: «Innanzitutto il monitoraggio, il ripristino ambientale e l’efficientamento delle attività e degli strumenti impiegati nel settore marittimo. In sostanza verifichiamo che tutte le attività dell’Area Protetta – come le visite di istruzione e divulgazione – siano sostenibili dal punto di vista ambientale, ad esempio che non impattino sulla consistenza numerica della fauna marina e altri parametri».

I biologi subacquei di Shoreline al lavoro

Saul Ciriaco: «Per farlo monitoriamo la biodiversità marina, ad esempio tramite il censimento visuale, non invasivo, e poi valutiamo l’”effetto riserva” su parametri come il numero di pesci, la loro taglia e la loro varietà, comparando i risultati con quelli di altre zone vicine, come Grignano e Santa Croce, che sono ambienti simili, ma non sono Aree Marine Protette, ma località turistiche e di pesca; Grignano, in particolare, è adiacente a Miramare, mentre Santa Croce è sita a una maggiore distanza. Un’altra attività riguarda il ripristino ambientale della flora marina, che subisce l’impatto delle attività antropiche; ad esempio, la dieta umana prevede grandi quantità di pesci carnivori, motivo per cui nelle aree di pesca i pesci erbivori, che hanno meno predatori, aumentano in proporzione; questo fa a sua volta diminuire la quantità di alghe. Gli equilibri della biodiversità, quindi, cambiano: noi ci occupiamo di ricollocare e piantumare sul fondale le piantine, che sono ricostruite e coltivate dall’Università di Trieste».

A proposito di pesca, in Shoreline sono convinti che questo settore economico – che come in tutte le aree costiere, anche nel triestino è molto rilevante – vada supportato verso una maggiore sostenibilità.

Carlo: «Cerchiamo di incentivare e facilitare la pesca subacquea con attrezzi manuali, meno invasiva, e la mitilicoltura, che è un’attività di allevamento poco impattante. Ad esempio, vogliamo aiutare i pescatori ad abbandonare le reti da incalzo in plastica, molto performanti ma anche inquinanti e problematiche, che vengono ingerite dai pesci e costituiscono una buona parte dei rifiuti plastici che vengono rinvenuti in quest’area costiera. A questo, ovviamente, affianchiamo anche un piano di gestione della risorsa ittica, altrimenti non serve a nulla».

I piani di gestione, infatti, sono centrali:

Saul: «La redazione di piani per valutare gli impatti delle attività è fondamentale nel nostro lavoro; stiamo perfezionando una modalità di gestione e monitoraggio della pesca nell’area di Miramare, redigendo dei documenti redazionali per mettere a sistema le nostre attività, in modo che i dati raccolti non restino fini a se stessi, ma siamo valutati e usati per dei piani di gestione concreta del territorio e delle risorse».

Oltre a queste attività che svolge direttamente, Shoreline fornisce supporto anche a enti che si occupano di monitorare parametri come le contaminazioni chimiche e l’inquinamento acustico come nel caso dell’ARPA Friuli Venezia Giulia, l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, oltre a essere, fin dalla fondazione, un punto di riferimento per il WWF.

Qual è ad esempio un problema ecologico di cui vi siete occupati nel concreto?

Saul: «Ci occupiamo di specie in via d’estinzione, come la pinna nobilis [un grosso bivalve tipico del Mediterraneo, ndr] che oggi rischia di scomparire a causa di un’epidemia; nell’Adriatico settentrionale le cose vanno leggermente meglio, ma sono peggiorate negli ultimi anni. Per questo stiamo lavorando a un piano di restauro della pinna nobilis e ci siamo specializzati nella sua ricollocazione da aree in cui le popolazioni di questo animale, anche in cattività, sono in salute e dove, quindi, si lavora sulle tecniche di riproduzione e di protezione, per ripopolare poi altre aree».

Shoreline è così specializzata nella raccolta di tessuti per verificare lo stato di salute dell’animale senza nuocergli, che lo SPA/RAC – il centro che si occupa delle attività delle aree speciali protette e che fa capo all’ONU – le ha affidato la formazione per operatori e ricercatori in Tunisia.

Lavorate solo qui o anche in altre aree marine?

Saul: «Siamo specializzati su questa zona, ma presto andremo in Sardegna, dove lavoreremo in un contesto mediterraneo occidentale, molto diverso da questo, e dove porteremo le tecniche che abbiamo qui, adattandole; poi faremo lo stesso in Cilento, in un altro contesto ancora. Così vedremo se tutto quanto abbiamo testato qui può essere portato anche altrove e magari esteso su larga scala, come chiede l’Unione Europea; bisogna imparare a farlo, anche perché le attività umane hanno creato danni tanto estesi da richiedere attività di restauro e protezione altrettanto ampie ».

Quali caratteristiche rendono il Golfo di Trieste così particolare?

Carlo: «Innanzitutto l’escursione di marea, che qui è molto netta, cosa che si riflette sulla biologia che si è sviluppata in questo ambiente; un’altra caratteristica è la scarsa profondità, con un bacino di massimo 20-22 metri. Il tutto è reso ancor più complesso dall’essere incastonato tra due grandi realtà industriali: da un lato il porto di Monfalcone e dall’altro quello di Trieste e, a 20 km, quello di Capodistria, cosa che ne fa probabilmente il contesto marino protetto cittadino più particolare d’Italia, ma rende anche difficile la gestione e il controllo delle specie aliene, ad esempio. Per questo siamo fortemente specializzati su un ambiente molto caratteristico e ristretto e dobbiamo adattare le nostre competenze per poterle esportare; d’altro canto, il fatto che quest’area sia così particolare fa sì che sia anche molto studiata: così noi abbiamo a disposizione le più lunghe serie di raccolte di dati, ad esempio di temperatura e salinità, siamo molto fortunati perché questo facilita le nostre attività e ricerche».

In tutti questi anni di attività, quali problemi ecologici avete visto nel mare?

Saul: «Più che singole problematiche, bisogna parlare di grossi cambiamenti: anche solo negli ultimi dieci anni c’è stata una grande variazione nell’ambiente marino, in gran parte riconducibile al cambiamento climatico. L’aumento delle temperature, ad esempio, influenza fenomeni come lo slittamento dei periodi di riproduzione di diverse specie animali. In parte, però, i cambiamenti che osserviamo sono dovuti al mutare e allo specializzarsi delle nostre competenze negli anni: oggi siamo in grado di osservare i fenomeni con più precisione e, chiaramente, più si guarda il mare, più cose si notano. Ovviamente bisogna considerare che nell’Area Marina Protetta le dinamiche sono un po’ diverse da quelle esterne: ad esempio, nelle Aree Protette la presenza dei predatori dei ricci di mare è più netta, mentre fuori dalle Aree altri elementi (come la pesca) ne riducono la presenza; sono elementi di cui bisogna tenere conto, anche se sono difficili da valutare: mentre esistono politiche di controllo su caprioli e cinghiali, ad esempio, non ne esistono di analoghe per le specie ittiche delle Aree Protette».

E quanto alla sensibilità delle istituzioni e dei vostri interlocutori avete visto dei cambiamenti negli anni?

Saul: «Sì, indubbiamente c’è stato un grande cambiamento, sia nelle organizzazioni ambientaliste sia nella cittadinanza, anche per effetto della sensibilizzazione e della divulgazione. Trent’anni fa forse dieci persone in tutta Trieste parlavano e capivano i cambiamenti climatici, oggi invece tutti conoscono questo problema, magari perché ne hanno visti gli effetti, ad esempio facendo esperienza diretta dell’acqua alta che sempre più spesso invade Piazza Unità d’Italia».

Fotografia del mollusco Antiopella cristata
Antiopella cristata

Quali, invece, sono gli ostacoli che incontrate nel vostro lavoro?

Carlo: «Essere mirati nelle nostre attività: non è difficile trovare i finanziamenti, ma piuttosto spenderli in modo mirato ed efficace. Un altro limite è trovare braccia operative che abbiano competenze variegate come quelle che servono a noi che vanno dalla ricerca scientifica alla conoscenza della biologia marina, della flora e della fauna, a quelle più pratiche ad esempio nell’ambito delle immersioni subacquee».

Saul e Carlo ci salutano con una riflessione suscitata dal loro lavoro quotidiano, ma che può valere per tutti:

«Noi umani pensiamo di governare la natura, ma in realtà non governiamo niente: in un sistema fatto di un numero potenzialmente infinito di variabili, non siamo capaci di considerarle tutte. Ma il nostro lavoro è bello anche per questo: dobbiamo avere la flessibilità di cambiare lo sguardo che volgiamo sulle cose. Il problema è che spesso ci si accorge dei danni quando ormai sono arrivati a livelli catastrofici, magari perché pensiamo che non abbiano una rilevanza economica».

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