ENI in tribunale, aumentano le battaglie giudiziarie per il clima

Il colosso degli idrocarburi Eni deve affrontare una causa intentata da associazioni ambientaliste e cittadini: è la prima volta in Italia, ma è sempre più frequente in Europa e oltre. Ecco come l’associazionismo e l’attivismo civile funzionano

Di recente, Greenpeace, ReCommon e 12 cittadini italiani hanno fatto causa a Eni, la multinazionale del petrolio fondata nel 1953, per le sue responsabilità nella crisi climatica. Non solo: l’azienda è stata anche criticata in seguito all’annuncio dell’avvio di nuove esplorazioni fossili in Australia e per aver alimentato la crisi energetica che di recente ha colpito il Pakistan. I ricorrenti, cioè, evidenziano le responsabilità dell’azienda sul piano internazionale nell’aver provocato ingenti danni ambientali e climatici, consapevole di farlo, e nel continuare a farlo; chiedono, quindi, che Eni sia condannata per i danni attuali e per quelli che il suo operato causerà in futuro, sia patrimoniali che non, connessi alla crisi climatica. Il procedimento – che è stato intentato anche nei confronti del ministero dell’Economia e delle Finanze e di Cassa depositi e prestiti, in quanto azionisti di Eni che si trovano in posizione di potere – è stato depositato presso il tribunale di Roma.

Il petrolio va in tribunale: cosa chiedono gli accusatori

Mentre l’accusato rigetta le imputazioni e promette di valutare a sua volta azioni legali contro i ricorrenti, quello che chiedono questi ultimi non è tanto una quantificazione dei danni, ma soprattutto un accertamento delle responsabilità, attraverso la causa è che stata prontamente chiamata #LaGiustaCausa.  Quello che vogliono ottenere è che Eni limiti il volume annuo aggregato di tutte le emissioni di gas serra in atmosfera, in modo da ridurle di almeno il 45% entro la fine del decennio rispetto ai livelli del 2020, in linea con gli scenari elaborati dalla comunità scientifica per mantenere l’aumento medio della temperatura globale entro i 1,5 gradi in più rispetto alle medie preindustriali, che rappresenta la cifra oltre cui le conseguenze della crisi climatica sarebbero ingestibili e disastrose. Se Eni non rispetterà tale obbligo, i ricorrenti chiedono che Eni sia condannata al pagamento di somma che il giudice riterrà equa per violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione del provvedimento.

Quello che viene criticato dai cittadini e dalle associazioni, quindi, è anche che, nonostante le dichiarazioni e alcune iniziative in favore della decarbonizzazione e delle rinnovabili, Eni continua a investire nell’espansione del suo business fossile, a danno del clima e delle comunità locali che in tutto il mondo subiscono gli impatti del riscaldamento globale. Lo confermano i dati: secondo il report dell’organizzazione Oil Change International nel 2022, come molte altre compagnie analoghe, anche Eni ha investito 15 volte di più nei segmenti industriali dominati dai combustibili fossili rispetto a quanto fatto da Plenitude, la branca del gruppo Eni che integra la produzione di energia rinnovabile; stando allo stesso rapporto, inoltre, Eni si appresta a dare il via libera a nuove estrazioni di petrolio e gas.

Le richieste, in definitiva, riguardano l’obbligo – che dovrebbe secondo i ricorrenti essere imposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze – per Eni e le realtà simili di adottare una policy chiara e ambiziosa che definisca obiettivi climatici concreti e le tappe per raggiungerli, ma anche il loro monitoraggio. Sono proprio le grandi aziende del settore, infatti, ad avere le possibilità maggiori di orientare davvero il mercato in direzione della transizione energetica e ad avere i mezzi per fare davvero la differenza anche nel sequestro dell’anidride carbonica dall’atmosfera; e, se è vero che molte multinazionali del settore degli idrocarburi stanno investendo anche nelle energie rinnovabili, quello che fanno non è ancora abbastanza, quando non è pericolosamente vicino al greenwashing.

L’attivismo che funziona

In attesa di scoprire come andrà a finire e quali saranno le conseguenze di questa causa, la vicenda può già dirci qualcosa: che l’attivismo serve. Al di là delle discussioni sulle modalità migliori e quelle peggiori, più efficaci e meno efficaci – occupazione di strade, vernice lavabile sui monumenti, scioperi – per far sentire la propria voce e portare messaggi importanti sappiamo che l’attivismo funziona, porta a qualcosa di concreto.

Se quella contro Eni, infatti, è la prima causa civile di questo tipo intentata contro un’azienda in Italia, infatti, a livello globale il numero complessivo di azioni legali sul clima è più che raddoppiato dal 2015 a oggi, portando il totale a oltre duemila cause, con un progressivo moltiplicarsi di quelle presentate da cittadini e organizzazioni non governative che chiedono il rispetto dei diritti delle persone colpite dalla crisi climatica e dell’ambiente stesso.

Esempi fortunati

Un esempio recente particolarmente significativo è la causa intentata da una coalizione di organizzazioni ambientaliste – Friends of the Earth, Greenpeace, ActionAid, Both Ends, Fossielvrij Nl, Jongeren Milieu Actief e Waddenvereniging – per conto di oltre 17mila cittadini contro il colosso Shell. In quel caso si ebbe un risultato concreto: a febbraio, infatti, il tribunale ha imposto a Shell di ridurre le proprie emissioni di gas serra del 45% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2019, per essere in linea con i requisiti imposti dall’Accordo di Parigi sul clima, in maniera simile a quanto i ricorrenti italiani chiedono rispetto a Eni. Anche Danone è stata portata in tribunale dall’organizzazione ClientEarth e altri due gruppi ambientalisti per il suo inquinamento globale da plastica. E, ancora, a inizio aprile, a seguito delle reiterate proteste delle organizzazioni ambientaliste e delle proteste da parte dei cittadini, l’aeroporto di Schipol, ad Amsterdam, uno dei più grandi e trafficati d’Europa, ha annunciato che entro il 2025 entrerà in vigore il divieto di jet privati e voli notturni. L’ennesima dimostrazione di come, organizzandosi per un obiettivo comune, nel nome della protezione dell’ambiente, i risultati si ottengono e a beneficiarne è innanzitutto l’aria che respiriamo e, quindi, la collettività. E se i tribunali concordano, le aziende inquinanti non possono che adattarsi.

Immagine di copertina, fonte OilGas News.

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