Facciamo chiarezza sul granchio blu

Complice la copertura mediatica di questa estate, pescherie e ristoranti vendono l’ormai celebre crostaceo in massa; vediamo i vantaggi e i limiti della strategia di mangiare questa specie aliena per ridurne la presenza nei nostri mari.

In Italia, tra piante e animali sono oltre 3.000 le specie aliene identificate: si tratta di specie viventi invasive e non autoctone che, grazie alle loro capacità di adattamento anche a condizioni climatiche e ambientali estreme – come quelle che sempre di più caratterizzano il Mediterraneo, che gli scienziati considerano un hotspot della crisi climatica – , sono in grado di danneggiare quelle autoctone e, quindi, la biodiversità locale; tanto che sono ritenute un fattore chiave nel 54% delle estinzioni animali conosciute e, nel 20% dei casi, come l’unico responsabile.  

Tra le specie aliene di cui più si sta parlando negli ultimi tempi, il granchio blu merita un posto d’onore. Originario delle coste Atlantiche dell’America, è una specie di granchio caratterizzato, come suggerisce il nome popolare, dalla particolare colorazione del suo carapace, che vira all’azzurro specialmente sulle chele. Nelle ultime settimane, quasi improvvisamente – per effetto di un’attenzione mediatica che si è accorta tutta d’un tratto del problema rappresentato dalle specie aliene – cittadini e pescatori, ma soprattutto politici e ristoratori si sono scoperti attenti all’etologia e agli equilibri ecologici del mare e hanno dichiarato guerra al granchio blu. La soluzione che quasi unanimemente propongono è il consumo alimentare di questo crostaceo, che in effetti pare avere carni deliziose.

Una possibile soluzione?
Come sempre quando ci si trova di fronte a un’emergenza (sia essa reale o percepita), le soluzioni che vengono preferite solitamente sono quelle che appaiono più rapide nei loro effetti. E possibilmente, come in questo caso, più gustose. Pescare in grandi quantità gli esemplari di granchio blu nel Mediterraneo appare quindi una facile soluzione che presenta l’ulteriore vantaggio di darci da mangiare, per di più riempiendoci il piatto di un cibo delizioso.

Proprio la pesca massiccia, come anche la caccia, in effetti, nella storia ha – e continua a farlo – ridotto la consistenza delle popolazioni di diverse specie animali presenti in natura, pesci e crostacei compresi. Di primo acchito sembrerebbe poter funzionare anche nel caso del granchio blu, riducendo la presenza di una specie per una volta indesiderata che contribuisce a ridurre la biodiversità dei nostri mari, dei nostri fiumi e delle lagune dove sta continuando a prosperare (quasi) indisturbata.

Molti ci scommettono, tanto che il prezzo di questo animale è in crescita. Fino a poco più di un mese fa, infatti, il granchio blu costava al dettaglio tra i 5 e i 7,50 euro al chilo, mentre oggi è arrivato fino a 12-15 euro. Nonostante i prezzi, il consumo è in crescita. Che la soluzione al problema sia dietro l’angolo?

Un approccio con molti limiti

Etologi ed ecologi, però, non concordano che sia questa la strada da percorre. Perché il mare, come gli altri ambienti, è un ecosistema che funziona grazie a equilibri delicati: modificando artificialmente uno dei fattori in gioco, le conseguenze potrebbero essere impreviste e non tanto piacevoli.

Il maggiore predatore di granchio blu, infatti, è il polpo, seguito da squalo blu (noto anche come verdesca), branzini striati, anguille: tutte specie che sono vittime di overfishing, ovvero pesca eccessiva, che oggi conta anche tonnellate di pescato illegale, purtroppo non una nicchia di mercato, rappresentando, secondo le stime, il 40% della pesca totale, che finisce nel piatto di consumatori inconsapevoli. Il polpo da anni è in continua diminuzione nel Mediterraneo (cosa che determina anche un calo nella produzione di carne di polpo, passata da 5mila tonnellate nel 2009 a 2.600 circa nel 2017), con effetti a catena – come sempre avviene in natura, mare compreso, trattandosi di un ecosistema – sui suoi predatori, tra cui le foche monache, che non a caso oggi sopravvivono nelle acque italiane in appena circa 700 esemplari, mentre fino a metà Novecento prosperavano; ma anche sulle sue prede, tra cui il granchio blu, appunto. Infine, il crostaceo più che gli equilibri marini danneggia soprattutto gli allevamenti lungo le coste, in Italia in particolare presso il delta del Po: è più probabilmente questo, forse, a preoccupare i più, e non tanto la sorte della biodiversità mediterranea.

Risalire alle cause profonde

L’espansione numerica di molte specie infestanti è causata direttamente dalla crisi climatica, che comporta un generale aumento delle temperature del mare e cambiamenti della salinità e dell’acidità delle acque, oltre all’inquinamento da plastica: tutti fattori che disturbano gli animali che popolano le profondità; d’altro canto è proprio la pesca eccessiva di quelle specie che predano gli invasori alieni a permettere a questi di moltiplicarsi senza limite. Riducendo l’impatto dei cambiamenti climatici su mari e altri specchi d’acqua e limitando la consistenza della pesca, quindi, si potrebbe dare la possibilità ai mari e agli oceani di ristabilire un equilibrio più sano.

Come spesso accade, infatti, anche nel caso dei problemi rappresentati dal granchio blu intervenire artificialmente potrebbe non essere una buona idea. Meglio, invece, risalire alle cause profonde e cercare di risolvere quelle, chiedendosi per quali motivi l’ecosistema marino sia squilibrato e cercando di intervenire su di essi, anziché puntare alla soluzione apparentemente più rapida che spesso rassicura senza essere la vera soluzione al problema, e rischia anche di avere conseguenze sconosciute.

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