Slow fashion, quando anche l’estetica diventa etica

Pelle da mele, cactus e mais. Gli accessori glam&green di Miomojo, società benefit. Intervista alla fondatrice Claudia Pievani

Combinare etica ed estetica, una sfida non da poco. Se oggi la sostenibilità dei materiali è un tema molto in voga nella moda, qualche anno fa era un trend destinato a una ristretta nicchia di consumatori consapevoli. La moda, il fashion system, negli anni ha sacrificato ogni valore sull’altare della customer satisfaction, della soddisfazione del cliente, avviando una corsa frenetica verso la ricerca incessante del bello, dell’originale, dell’esclusivo. Con il fast fashion, la moda per tutti, si è avuta l’accelerata finale, innescando un circolo vizioso di brand che inseguono il consumatore che a sua volta è plasmato da quello che i brand gli propongono. In questo meccanismo, l’ambiente, l’origine dei materiali, la loro produzione hanno assunto un ruolo sempre più marginale. Cosa è cambiato in così poco tempo? Perché ora i brand del lusso puntano sulla sostenibilità ambientale e sociale dei loro prodotti e nascono sempre più marchi di moda sostenibile? E ancora, cosa è davvero green nella moda? È un processo lungo di consapevolezza che nasce, già prima della pandemia, come conseguenza del grido di allarme sul cambiamento climatico che si è alzato da più parti. L’ultimo anno ha poi dato la prova a tutti noi che stare bene nel proprio ambiente è fondamentale e che, in fondo, non ci servono tante cose per vivere ma poche cose che ci facciano sentire meglio. Come evidenziato anche dal recente studio di Farfetch.

Oggi l’88 per cento dei consumatori è interessato a minimizzare il proprio impatto ambientale, è diventato più responsabile e preferisce acquistare da brand attenti a queste tematiche.

Inoltre, tra le conseguenze della pandemia, le ricerche evidenziano un importante incremento nella ricerca di materiali animal-free e vegan. Il percorso è ancora lungo, ma i segnali da diversi settori, moda compresa, fanno ben sperare.

L’impulso arriva soprattutto da piccole realtà che da tempo portano avanti un concetto di slow fashion, di moda etica e sostenibile, fatta per durare a lungo, nel rispetto dell’ambiente e della società, in contrapposizione a quella usa e getta del fast fashion delle grandi catene di distribuzione. Miomojo ne è un esempio. Nata nel 2012 dal progetto visionario della fondatrice Claudia Pievani, produce accessori cruelty-free, riciclati, sostenibili e completamente made in Italy, con una filiera corta, avvalendosi delle eccellenze del territorio che si estende tra Bergamo e Vicenza. Miomojo è una società benefit e ha iniziato il processo per diventare B Corporation, portando avanti da anni a filosofia del “give back” (dare indietro quello che si consuma) attraverso la donazione del 10 per cento dell’utile netto ad associazioni internazionali per la cura di animali in difficoltà e la partecipazione in “1% for the Planet”, l’alleanza globale, creata dal fondatore di Patagonia, tra le aziende che vogliono avere un impatto positivo sul pianeta. Gli accessori sono totalmente privi di pelle e di materiali di origine animale: la collezione premium, realizzata in Cactus Leather e AppleSkin, si avvale di materiali organici rispettivamente provenienti da cactus e mele, alla quale è stata affiancata la linea in Corn Leather, in tessuto certificato bio-based, totalmente italiano e a ridotto impatto ambientale, realizzato da coltivazioni di mais.

Ecco cosa ci racconta proprio Claudia Pievani

La maggiore consapevolezza nei processi di acquisto è qualcosa che oggi nasce dal basso, dai consumatori, o è l’ennesimo trend imposto dalle case di moda?

Un’azienda si muove raramente se non ha un target specifico, perciò credo che il consumatore sia davvero più consapevole, non è un trend ma una evoluzione. Come ogni evoluzione parte da un piccolo numero e poi si allarga. Vediamo anche un’esplosione di prodotti alimentari vegani e cruelty free e catene come Starbucks o McDonald’s che realizzano opzioni vegane proprio perché sanno che c’è un consumatore molto più attendo. Oggi siamo felici di constatare come anche i più rinomati brand di lusso stiano introducendo articoli in materiali innovativi. Il concetto stesso di consumo di lusso sta evolvendo, in favore di un nuovo lusso, maggiormente consapevole. Ora si aspira a prodotti (lusso e non) che abbiano un valore aggiunto, che possano trascendere il momento presente e collegarsi a qualcosa di più profondo.

La vera sostenibilità è il rispetto. Rispetto per l’umanità, rispetto per l’ambiente e per gli animali. Estetica ed etica possono e devono convivere.

Claudia Pievani, fondatrice di Miomojo

Come nasce Miomojo, l’idea di una linea di accessori senza pelle?

Ognuno di noi ha un compito, più o meno consapevole, in questa vita. I più fortunati vivono quel momento determinante in cui il percorso che li attende prende forma e diventa chiaro, quel magico istante in cui le cose scorrono. Per me, quel momento è avvenuto nel 2012. Avendo lavorato per diversi anni nel business internazionale, desideravo con tutto il cuore dare un significato ed uno scopo a ciò che occupava larga parte della mia giornata. Godevo di libertà economica ed altri vantaggi, come poter viaggiare ed ampliare mente e cuore, ma sentivo comunque che non stavo compiendo la mia missione. Qualcosa non andava nel riversare altri prodotti su un mercato già saturo e così pieno di “cose”. Desideravo creare qualcosa che fosse allineato ai miei valori etici, estetici e di rispetto del pianeta e di ogni essere vivente. Ma ero sempre più frustrata dal fatto che molte di queste creazioni venissero spesso realizzate a spese di esseri viventi innocenti. La pelle, ad esempio, è stata a lungo (e per molti versi ancora è) lo standard di riferimento per gli accessori luxury, e mi chiedevo se ci fosse un modo per ottenere quello stesso valore estetico, senza sacrificare le vite di altri esseri viventi e rendendolo alla portata di sempre più persone, in modo da creare un vero impatto positivo, non limitandosi ad una piccola nicchia. L’alternativa proposta all’epoca dai prodotti sintetici sul mercato in genere mancava di qualità e di ricerca di design, non erano attraenti. Così, ho iniziato la mia personale odissea per fornire alternative cruelty-free, realizzate con rispetto e stile italiano. La mia idea è di creare una moda senza vittime, fashion without victims.

Possiamo dire, dunque, che i prodotti sintetici non sono un’alternativa meno accattivante rispetto a quelli in pelle?

Noi siamo sempre alla ricerca di materiali innovativi che negli ultimi anni si è ampliata, fino all’ultimo anno quando abbiamo aggiunto la Cactus Leather, la AppleSkin e da ultimo la Corn Leather, la cui pre-vendita parte da questa settimana. Ho voluto rivoluzionare i prodotti etici affinché fossero anche belli esteticamente, aspetto che prima veniva trascurato. Quando abbiamo iniziato con Miomojo, la sensibilità verso la moda etica era sicuramente inferiore rispetto a ora, perciò ho insistito molto sul lato estetico. C’erano mercati già molto aperti, come quello tedesco e i Paesi del nord Europa. Anche la California è da sempre molto sensibile al tema del cruelty free e vegano, così come il Regno Unito. Ora la tendenza si è invertita e vediamo l’Italia come primo nostro mercato.

La nuova linea in pelle di mais

Oltre ad essere vegani i vostri prodotti sono anche a filiera corta, quanto è stato difficile creare un tipo di produzione quasi a chilometro zero?

Soprattutto nell’ultimo anno di pandemia abbiamo fatto uno sforzo enorme per cercare di portare tutta la produzione a pochi chilometri dal nostro centro, avvalendoci di molte eccellenze italiane. L’impatto ambientale è inferiore ma anche le produzioni che abbiamo all’estero sono super certificate e tutti rispettano i valori aziendali. Alcuni prodotti provengono ancora dall’Asia, abbiamo anche un ufficio ad Hong Kong. Tutti i tessuti riciclati vengono fatti in Corea perché offrono un miglior rapporto qualità prezzo e ci teniamo che i nostri prodotti siano accessibili a un maggior numero di persone, affinché si crei sempre più consapevolezza. Ci ispiriamo a Stella McCartney ma con una fascia di prezzo più bassa. Il prossimo passo è lanciare anche le calzature.

Da chi o da dove deve partire la rivoluzione nel sistema moda?

Bisogna cambiare le abitudini di tutti e capire che se acquistiamo cose a bassissimo prezzo qualcun altro le paga. Alla fine a pagare siamo tutti quanti perché se una t-shirt costa 3 euro e ne compro 30 perché tanto costano poco, c’è chi ci rimette. Poi quelle t-shirt saranno buttate e sappiamo quali sono i danni ambientali della fast fashion, ai quali tutti abbiamo contribuito. Io credo nella responsabilità individuale. Con i nostri acquisti decidiamo che mondo vogliamo e, se non siamo ipocriti e vogliamo un mondo più sostenibile, dobbiamo essere disposti a pagare di più i prodotti che compriamo.

Sostenibilità e innovazione tecnologica vanno di pari passo?

Cerchiamo di avere un know-how completo di tutti i materiali disponibili in questo momento. Molti produttori hanno fatto capsule per grandi marchi di moda ma non possono ancora rifornire in grande scala. L’innovazione c’è ma ci vuole del tempo affinché si diffonda. C’è una grandissima spinta verso prodotti innovativi e sostenibili, perciò oggi volendo si potrebbe fare a meno della pelle. Basta volerlo.

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