Abbiamo affrontato spesso il tema dell’abbigliamento second-hand, il cui acquisto potrebbe contribuire a rallentare la produzione di nuovi capi. Il fast fashion ormai è rapidissimo in tutte le sue fasi: acquistiamo e scartiamo vestiti e accessori di stagione in stagione, perché ne troviamo sempre di nuovi a prezzi invitanti. Non altrettanto “fast” è il processo di smaltimento dell’usato e dell’invenduto.
Montagne di vestiti
Un altro aspetto da considerare del sistema moda è legato alle migliaia di chilometri che compie ogni capo. Quello che è prodotto in Asia, principalmente in Cina, India o Bangladesh, viene poi distribuito in tutto il resto del mondo.
Anche se siamo consumatrici e consumatori consapevoli, sappiamo bene che quando decidiamo di disfarci di un oggetto e lo buttiamo via, questo non si smaterializza, ma inizia un nuovo viaggio.
Se parliamo di abbigliamento in buono stato, il primo passo è il circuito del second-hand. Quando invece un capo è danneggiato o usurato, può essere utilizzato come materia prima. L’ultimo passaggio è il riciclo delle fibre, che deve poter contare su una coerente filiera che accompagni il risultato dalla raccolta differenziata allo smistamento, per poi passare alla sfilacciatura dei tessuti alle operazioni necessarie a ridurlo in fibre o polimeri rifilabili.
Questo ciclo virtuoso interessa il 30% dei vestiti dismessi. Il resto si trasforma inevitabilmente in rifiuto.
Esiste un documentario che racconta il folle viaggio compiuto da tonnellate di vestiti e accessori, dopo che vengono gettati nella spazzatura. Si chiama Textile mountain perché il loro ciclo di vita si interrompe in discariche situate ai quattro angoli del pianeta, dove si stagliano vere e proprie montagne di tessuto, che vengono alimentate al ritmo vertiginoso di un camion al secondo.
Questo video di 20 minuti, disponibile gratuitamente si YouTube, mostra cosa succede in Kenya, Ghana e Senegal, paesi che importano l’abbigliamento usato proveniente dai paesi occidentali (ribattezzato “mitumba”). Se da una parte le comunità a basso reddito hanno così accesso a vestiti a basso costo, e il loro commercio sostiene l’economia locale, dall’altra l’industria tessile che in questi Paesi poteva contare su una lunghissima tradizione ha subito una battuta d’arresto proprio a causa della quantità spropositata di materiale che transita nei mercati. Ogni anno infatti al porto di Mombasa arrivano da Europa, Stati Uniti e Canada 140.000 tonnellate di mitumba, l’equivalente di quello che si riesce a stipare in 6000 container.
Aziende private che si occupano del riciclo di tessuti li raccolgono, li imballano e li vendono a peso ai mercanti locali. Questi pagano tra i 100 e i 400 Euro per un blocco di 45 kg, senza sapere cosa contiene. Anche se questi sacchi sono classificati in base alla qualità, quasi il 50% del contenuto è troppo rovinato per essere rivenduto.
Quello che non finisce sui banchi del mercato viene portato a Dandora, una gigantesca discarica alle porte di Nairobi, che raccoglie rifiuti di tutti i tipi, dalle sostanze chimiche pericolose ai rifiuti ospedalieri, dalle batterie all’elettronica, dai tessuti agli scarti industriali. Non disponendo di tecnologie per lo smaltimento, si cerca di creare spazio bruciando l’immondizia, ma questa pratica, oltre a essere pericolosa, inquina il suolo e rilascia fumi tossici che peggiorano ulteriormente la qualità dell’aria respirata da chi vive nelle vicinanze.
Le immagini di un’immensa colonia di Marabù che cerca cibo nella discarica trovando solo vestiti, e le testimonianze delle persone che si guadagnano da vivere rovistando nelle montagne di spazzatura in cerca di oggetti di valore, lasciano un’impressione forte.
Dune tessili
Textile mountain si concentra sugli effetti dei rifiuti tessili nell’Africa subsahariana, ma purtroppo lo stesso problema si sta verificando anche in Sudamerica.
Il punto di ingresso dell’abbigliamento usato è il porto di Iquique, nella regione dell’Alto Hospicio, nel nord del Cile. Ogni anno, da qui transitano 59.000 tonnellate di materiale tessile. Di queste, solo 20.000 tonnellate entrano per essere distribuite in America Latina. Il resto, invenduto o non contrabbandato, rimane in questa zona franca, e sembra che ogni responsabilità venga a decadere, compresa quella sullo smaltimento.
Tutto ciò che non si riesce a piazzare, perché troppo rovinato per alimentare il mercato dell’usato locale, finisce nel deserto di Atacama, uno dei luoghi più aridi al mondo, che è ormai ricoperto da dune di stracci.
Questi rifiuti compromettono il delicato equilibrio dell’ecosistema locale: i tessuti possono impiegare centinaia di anni per biodegradarsi. Nel farlo rilasciano nel terreno tossine e coloranti, diventando, di fatto, rifiuti tossici per l’ambiente e per l’uomo, come succede a Dandora.
Quando scartiamo un capo di abbigliamento, prendiamoci del tempo per smaltirlo in modo corretto, informandoci sulle modalità e punti di raccolta.
Se vogliamo che l’Atacama torni a fiorire, dobbiamo ricordare sempre che una nostra scelta superficiale può creare importanti conseguenze a migliaia di chilometri da noi.