Greenbickering, battaglia tra aziende sui green claim

Oltre ad essere concorrenza sleale e presa in giro del consumatore, il greenwashing diventerà sempre più un modo per portare le aziende in Tribunale

Il termine “greenbickering” è una combinazione di “green” (verde, associato alla sostenibilità ambientale) e “bickering” (discussione o battibecco). Anche se non esiste una definizione ufficiale, il concetto comincia farsi strada nel più ampio tema del greenwashing, per indicare il fenomeno in cui aziende concorrenti si scontrano su questioni legate all’ambiente o alla sostenibilità, a volte puntando il dito sui green claim e la concorrenza sleale.

In altre parole, il greenbickering potrebbe generare dibattiti o controversie a volte anche superficiali o poco produttive riguardanti temi ecologici in senso stretto, come ad esempio quando si litiga su dettagli minori di iniziative verdi, invece di concentrarsi su problemi più ampi e urgenti legati al cambiamento climatico o alla sostenibilità. Potrebbe addirittura generare una forma di “disaccordo sterile” nelle politiche ambientali, dove le persone o le istituzioni si concentrano più sul confronto che sull’azione pratica.

Sicuramente, e secondo gli esperti legali, è un fenomeno che tende ad aumentare: ci sarà un aumento di azioni legali tra aziende concorrenti e a una crescita delle dispute tra aziende competitor sulle irregolarità delle informazioni presenti su packaging ed etichette (green claims).

Effettivamente, con il crescere di importanza della reputazione e delle caratteristiche green di aziende e prodotti, si sta assistendo a una crescita importante del greenwashing che corrisponde, in definitiva, a una forma di concorrenza sleale, dal punto di vista di una logica di mercato dove ogni azienda cerca il modo di conquistare i suoi clienti. Per le organizzazioni che intraprendono, a volte con notevoli investimenti e fatica, percorsi per diventare più sostenibili, è demoralizzante il confronto con aziende che praticano indisturbate ‘l’ambientalismo di facciata’, imbellettandosi con dichiarazioni (basate a volte su certificazioni inconsistenti) false, o vaghe o fuorvianti che tuttavia fanno presa sul consumatore.

Da qui ne deriva che sarà sempre più frequente che nascano dispute tra aziende concorrenti.

A livello legislativo – spiega Rita Santaniello avvocato dello studio legale multinazionale Rödl & Partner – se da un lato qualcosa si sta muovendo con la direttiva che ha ottenuto il via libera definitivo del Parlamento europeo e che mira a proteggere i consumatori da pratiche di comunicazione ingannevoli e a supportare scelte di acquisto più consapevoli grazie a etichettature più chiare e affidabili, dall’altro i tribunali dovranno prendere sempre più confidenza con tutta una serie di azioni (o cause) con le quali un’azienda può agire contro un competitor per concorrenza sleale laddove ritenga utilizzi impropriamente la leva della sostenibilità aziendale per migliorare il suo percepito verso il mercato e i consumatori per vendere di più, come per esempio utilizzando marchi, slogan o diciture green non comprovate sottraendo mercato agli altri o per ‘inverdire’ la propria immagine, ottenendo così ingiustamente un vantaggio competitivo”.

Il greenwashing nei dati

Secondo l’Osservatorio Immagino di Gs1 Italy, attualmente i prodotti sugli scaffali della grande distribuzione che riportano in etichetta claim (dichiarazioni) che comunicano la loro sostenibilità sono ben l’83,8%: riciclabilità del packaging, formulazione sostenibile degli ingredienti o biodegradabilità, riduzione della plastica o delle emissioni di CO2, si tratta di asserzioni che manifestano un’attenzione sempre maggiore da parte delle aziende alle tematiche green come elemento fondamentale delle strategie commerciali e di marketing. Per rispondere non solo a richieste normative, ma al favore dei consumatori.

Il report “The Visionary CEO’s Guide to Sustainability 2024” di Bain & Company condotto su circa 19.000 consumatori a livello globale, tra cui gli italiani, emerge come la consapevolezza sulla sostenibilità sia cresciuta notevolmente negli ultimi anni, e sia diventata uno dei tre criteri principali che influenzano le decisioni d’acquisto.

Secondo l’Osservatorio Deloitte più di 8 italiani su 10 non solo prediligono brand attenti alla sfera ambientale, ma anche ritengono importante che i prodotti acquistati non debbano avere un impatto negativo sull’ambiente. La consapevolezza sul greenwashing è ancora appannaggio solo di una parte dei consumatori, ma è in crescita: il 59% interromperebbe o limiterebbe gli acquisti dei brand che utilizzano una comunicazione ambientale “di facciata”.

Il greenwashing è una pratica sempre più smascherata, normata e penalizzata, tuttavia è in crescita:

  • in tutti i settori del +26% (dati 2023 EBA)
  • il 60% delle imprese ci casca almeno una volta (dati Nielsen)
  • nel 42% dei casi le autorità abbiano ritenuto ingannevoli e non veritiere le comunicazioni green; nel 50% dei casi, le aziende non hanno dato ai consumatori informazioni sufficienti per valutare quanto comunicato in materia di ecosostenibilità; nel 37% dei casi il claim conteneva formulazioni generiche (indagine condotta dalla Commissione europea sotto il coordinamento della Ipcen – Consumer Protection and Enforcement Network).

Un caso italiano di greenbickering

Il caso coinvolge Alcantara S.p.A. (azienda che ha ideato, registrato e produce l’omonimo materiale di rivestimento sintetico) e Miko S.p.A., azienda concorrente nota per la produzione di un materiale molto simile, “Dinamica”. Alcantara ha citato in giudizio Miko per pubblicità ingannevole, accusando l’azienda di utilizzare claim ambientali non verificabili e fuorvianti, come “la prima microfibra sostenibile e riciclabile” e “100% riciclabile”​.

Nel novembre 2021, il Tribunale di Gorizia ha emesso un’ordinanza che ha riconosciuto Miko colpevole di greenwashing, ordinando la cessazione immediata delle campagne promozionali che includevano tali affermazioni. I giudici hanno stabilito che le dichiarazioni di Miko erano generiche e non supportate da evidenze concrete, creando così un’immagine “green” ingannevole per i consumatori​.

Questa sentenza è considerata significativa non solo per la sua applicazione nel contesto italiano, ma anche come un potenziale precedente in Europa nel campo delle pratiche commerciali scorrette legate alla sostenibilità ambientale.

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