I frutti antichi e dimenticati, ricchezza da recuperare

Conosciamo solo poche varietà di mela, una sola di banana e non abbiamo mai assaggiato un corbezzolo, un sorbo, una pesca isontina o una pera signora. Sono i frutti antichi e dimenticati che, oltre ad arricchire la biodiversità, possono proteggere dalle epidemie

In alcuni mercatini a km 0 o fiere specializzate si trovano, ma spesso crescono spontaneamente in orti e giardini, lontano dagli occhi dei mercati ortofrutticoli. Sono giuggiole, arance stacce, mirabolani, sorbole, corbezzoli, pere mandorline, biricoccole, pompia e tanti altri: ogni regione italiana ha i suoi, si può solo immaginare quanti siano nel mondo i frutti antichi, troppo spesso dimenticati, ritenuti a torto varietà minori, ma che spesso sono portatori di una lunga storia, oltre che di un gusto sorprendente, e contribuiscono a una ricchezza inaspettata rispetto a quanto offre di norma il cesto della frutta sul tavolo della cucina.

Buoni, ma non per il mercato

Non essendo interessanti per il mercato più ampio, molte delle cultivar poco (o per nulla) diffuse rischiano di scomparire, anche se alcuni piccoli produttori locali negli ultimi anni si sono appassionati a questa nicchia – qualche volta sostenuti dall’istituzione del Presidio Slow Food, come nel caso della Pera Signora della Valle del Sinni, in Basilicata –  testimonianza della straordinaria varietà esistente in natura, troppo spesso sacrificata sul mercato. Spesso questo è successo per motivi pratici, soprattutto quando si è affermata la grande distribuzione che ha reso necessari dei viaggi più lunghi tra l’area di produzione e quella di vendita dei prodotti, rendendo necessaria la garanzia di resistenza dei frutti al trasporto. L’Albicocca Bulida, ad esempio, che oggi si trova ancora in Valle d’Aosta e in alcune zone della Spagna da cui proviene, pur avendo una pianta molto robusta si caratterizza per dei frutti che deperiscono in breve tempo dopo la raccolta. In altri casi, queste varietà sono finite nel dimenticatoio perché non appetibili alla vista, come nel caso della Susina Gabbaladro, originaria della Puglia, il cui colore della buccia rimane verde anche quando è matura, o perché la produttività della pianta è legata al microclima di un territorio circoscritto e non si presta, dunque, alle grandi coltivazioni intensive; è il caso, ad esempio, della Pesca Isontina che cresce nella Valle del fiume Isonzo, in Friuli Venezia Giulia.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le varietà meno note non sono frutto di esperimenti di innesto che non hanno preso piede, ma al contrario spesso si tratta di frutti antichi che hanno attraversato la storia, come la mela Annurca, conosciuta e apprezzata da oltre 2mila anni. I frutti antichi in molti casi hanno prodotto per secoli, conservando codici genetici robustissimi, che si traducono in gusti e profumi ricchi di sfumature, oltre che in un’ottima resistenza della pianta, risultato di una selezione genetica avvenuta spontaneamente nel corso dei secoli. Questo, ad esempio, rende le cultivar antiche anche più resistenti ai patogeni, un aspetto molto interessante soprattutto oggi che ci si pone il problema dell’eccesso di sostanze chimiche in agricoltura. Così, solo una minima percentuale delle varietà di frutta, infatti, oggi è commercializzata a livello massiccio e nella maggior parte dei casi, addirittura, ce n’è una sola di queste, come nel caso della banana Cavendish.

Non c’è bisogno, infatti, di cercare la variante di nespola più di nicchia per incontrare un frutto dimenticato: lo sono anche tutte le banane e le mele che qualche decennio fa si potevano incontrare sui banchi del mercato e che oggi sono praticamente scomparse, a eccezione di qualche piccola produzione locale a uso e consumo dei produttori stessi. Basti pensare alle mele:  oggi chiunque sa nominare qualche varietà, dalla Annurca alla Granny Smith, dalla Pink Lady alla Red Delicious, dalla renetta alla Fuji. E basta. Potrebbe sembrare già una buona varietà, se non fosse che sul mercato, con una distribuzione e una percentuale piuttosto variabile, se ne trovano tra le 20 e le 30, ma le tipologie esistenti al mondo sono circa 7mila. Una bella differenza, ma pur sempre meglio di quanto accade con la banana. Se la mela è uno dei frutti più biodiversi del pianeta, con cultivar autoctone e selvatiche che cambiano di regione in regione, quella della banana è una storia a dir poco assurda.

La strana storia delle banane         

La pianta di banana è molto antica – addirittura risalirebbe a 9mila anni fa – ed è originaria della Papua Nuova Guinea, da dove poi fu portata in Cina, Malesia e Filippine, e in seguito in Africa, dove si adattò bene. In Sud America non arrivò, invece, prima del 1500, portata dai coloni portoghesi. Il banano che conosciamo oggi è un ibrido sterile tra due specie, la Musa acuminata e la Musa balbisiana, che hanno prodotto una variante più appetibile per i consumatori moderni rispetto al frutto antico, che conteneva semi piuttosto grossi, motivo che spinse agronomi e coltivatori a selezionare e incrociare varietà selvatiche diverse; fino a ottenere frutti più grandi e corposi e con semi sempre più piccoli. Oggi tutte le banane che compriamo sono cloni, bacche geneticamente identiche e e prive di semi, e tutte sono della stessa varietà: la Cavendish, che oggi rischia di scomparire. In mancanza di diversità genica la varietà può diventare estremamente vulnerabile e sensibile. Se intaccata da qualche agente patogeno può persino estinguersi. D’altro canto, è già successo, e nemmeno troppo tempo fa.

Fino agli anni Cinquanta del Novecento, infatti, la banana più diffusa apparteneva alla varietà Gros Michel, nome ufficiale Musa acuminata Colla, che fu attaccata da un fungo parassita che infettò gran parte dei raccolti; l’infezione, conosciuta come “malattia di Panama” ha di fatto sterminato la Gros Michel, che venne quindi rimpiazzata dalla Cavendish, più resistente a quel patogeno. Ma non a tutti: il flagello per le banane Cavendish potrebbe essere il fungo Fusarium oxysporum, che sta colpendo da qualche tempo le coltivazioni con il rischio di farle sparire. La storia delle banane, quindi, ci insegna che è meglio puntare sulla varietà, promuovendo e recuperando quella varietà e quella ricchezza di cultivar che oggi i banchi dei mercati hanno dimenticato.

Biodiversità, perché è importante

Oggi questa standardizzazione ha contribuito a un aumento notevole e preoccupante dello spreco alimentare, poiché è la distribuzione stessa – in primo luogo quella grande, dei supermercati, ma non solo – a proporre solo la frutta “migliore” esteticamente, che gli acquirenti scelgono, e scartare già a monte tutto il resto, ormai prodotto e magari anche raccolto, ma che va buttato, anche se spesso in perfette condizioni, non fosse per una forma non standard o qualche imperfezione estetica. D’altro canto, questi meccanismi di selezione di alcune varietà di frutta e di ultra standardizzazione contribuiscono a una fragilità del sistema alimentare tutto, che, basandosi su poche specie vegetali, risulta più esposto agli attacchi di parassiti e patogeni vari; questi, infatti, trovandosi di fronte una sola famiglia di un certo prodotto, ne possono fare facilmente piazza pulita, con grossi danni innanzitutto economici, ma anche in termini di disponibilità alimentare, che in alcuni luoghi del mondo e in alcune condizioni può significare un crollo preoccupante della disponibilità di cibo.

Di questo si parla, tra le righe, quando si discute di biodiversità, che può essere definita come la ricchezza di vita sulla terra, costituita da milioni di piante, animali e microrganismi, i loro patrimoni genetici e gli ecosistemi che costituiscono; non si tratta solo, quindi, della forma e della struttura degli esseri viventi, ma anche del numero, della varietà e della variabilità degli organismi viventi e come questi varino da un ambiente ad un altro nel corso del tempo. Proteggere e promuovere tale biodiversità, anche sostenendo i frutti di cultivar oggi locali e spesso in via di estinzione, sarebbe anche un’occasione economica per i piccoli produttori e per sviluppare la biodiversità locale, oggi sacrificata dalle grandi coltivazioni di una sola varietà, che, oltre che un impoverimento culturale, significa anche un maggior rischio.

In copertina: il frutto della ‘pompia, tra gli agrumi più rari di tutto il mondo, le sue origini sono accreditate al comune di Siniscola, nella Sardegna nord-orientale. Il frutto, commestibile solo a seguito di preparazioni dolci, ha tantissime proprietà benefiche. La rinascita e la riscoperta di questo frutto si è avuta alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, quando a Siniscola si è deciso di impiantare una coltivazione estensiva di pompìa, per un progetto di agricoltura sociale che coinvolge il Comune di Siniscola e il CIM. Dal 2004 è un Presidio Slow Food.

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