La drammatica vicenda del 20 settembre scorso del santuario animale Cuori Liberi, in provincia di Pavia, ha portato alla luce diversi aspetti: innanzitutto una fragilità dello status dei santuari che pure, sulla carta (il decreto del Ministero della salute dello scorso 7 marzo), sono stati ufficialmente riconosciuti come luoghi di rifugio e cura di animali sfuggiti o salvati dalle logiche di sfruttamento, e che ora vengono calpestati senza considerazioni razionali con la scusa del rischio di contagio che in realtà, come vedremo, non c’era. C’entrano, anche, soprattutto, i temi dei diritti animali e quelli degli attivisti. E poi c’è il problema effettivamente rappresentato dalla peste suina africana (PSA) e soprattutto dal modo in cui questo problema viene affrontato. Abbiamo chiesto una considerazione su quanto accaduto a Martina Pluda, direttrice della divisione italiana di Humane Society International (HSI) – organizzazione internazionale che si occupa di diritti degli animali, sia quelli considerati da compagnia che quelli considerati da reddito – e attivista, che abbiamo già intervistato qualche tempo fa.
La prima possibile considerazione è, inevitabilmente, il dolore per la sorte di quelli che erano prima di tutto individui.
Martina Pluda: “Sono devastata da quanto è accaduto il 20 settembre presso il Santuario Cuori Liberi, per la violenza esercitata contro persone e animali. Mi stringo al dolore per l’uccisione dei maiali Crosta, Freedom, Crusca, Pumba, Dorothy, Mercoledì, Bartolomeo, Ursula, Carolina e Spino, amati compagni dei volontari e degli operatori del rifugio. Non c’è giustificazione per scegliere la violenza al posto del dialogo e dell’empatia”.
Il dolore è tanto più intenso e la frustrazione più potente se si considera che gli animali che sono stati uccisi a Cuori Liberi erano perfettamente sani – come è stato verificato e confermato anche dopo l’uccisione – e che non avrebbero in ogni caso potuto rappresentare un pericolo rispetto alla diffusione della malattia. Al momento, infatti, non risulta che la PSA – un virus molto resistente – sia trasmissibile all’uomo né agli animali domestici: le uniche specie che possono contrarre la malattia sono i maiali e i cinghiali. Allevamenti e caccia sono infatti le attività più direttamente coinvolte.
Lo sottolinea chiaramente anche Martina Pluda: “È ingiusto che a pagare le conseguenze degli allevamenti intensivi siano, assieme agli oltre 30.000 suini già abbattuti in Lombardia per arrestare la diffusione della peste suina africana, anche gli individui che hanno trovato pace e dignità al di fuori delle logiche di profitto. È paradossale che questi maiali, non destinati ad usi zootecnici o alla produzione alimentare, siano caduti vittime dello stesso sistema dal quale si era creduto e sperato di averli invece finalmente sottratti”.
Obiettivo: preservare il profitto
Infatti, la PSA è un virus contagioso e molto resistente, che può resistere nella carne refrigerata e in quella congelata, ma anche negli insaccati persino dopo brevi periodi di stagionatura. Il problema riguarda, quindi, semmai la produzione e il consumo di carne, in particolare il suo smaltimento; si può diffondere, ad esempio, a partire dagli scarti di cucina lasciati incustoditi in campagna o nelle discariche non controllate e, da qui, attaccare i cinghiali che vi hanno accesso. Un elemento evidente è, quindi, che le conseguenze della PSA non riguardano tanto le preoccupazioni per la salute umana, quanto per il guadagno economico.
La causa della diffusione della PSA, infatti, oggi risulta legata alla caccia al cinghiale, ossia al rilascio (legale e illegale) di cinghiali da parte di cacciatori e alla loro densità, dovuta proprio agli interessi del business venatorio; negli allevamenti suini, invece, il virus arriva tramite contatti diretti con i cinghiali nel caso di maiali allevati allo stato brado o tramite mangime infetto (dato, per esempio, che come ricorda Lifegate il mangime spesso contiene scarti di alimentazione umana, una pratica in teoria illegale, ma diffusa) oppure, ancora, portata dall’uomo tramite il terriccio rimasto nelle scarpe; si diffonde poi facilmente a causa del sovraffollamento e delle condizioni di vita.
Arginare la malattia
Ecco perché anche la peste suina – come già ci dovrebbero avere insegnato altre patologie e zoonosi come l’aviaria o lo stesso Covid-19 – ci suggerisce che è urgente cambiare il modello alimentare ed economico dominante.
Martina Pluda: “Questi avvenimenti dimostrano che è necessario trasformare il nostro sistema alimentare, integrando sempre più proteine di origine vegetale, e il modo in cui vengono (non) considerati gli animali allevati, oltre che garantire reale protezione a quelli nei rifugi. Nonostante con decreto del Ministero della Salute del 7 marzo 2023, i rifugi permanenti per animali abbiano ottenuto una loro definizione e riconoscimento, nelle modalità di registrazione e gestione in casi eccezionali, continuano a essere considerati formalmente allevamenti. Intendere i rifugi come allevamenti, con la conseguente applicazione della relativa normativa, incluse le pratiche di eradicazione della PSA tramite ‘stamping out’ (la pratica di eliminazione immediata, sul posto, di animali nel contesto di una disinfestazione, nda), è il problema principale che queste strutture devono affrontare. È incredibilmente triste e distopico che i rifugi, che hanno lo scopo di sottratte gli animali al sistema produttivo, debbano sottostare alle stesse regole che ne salvaguardano l’interesse economico.”
Come messo nero su bianco dalla Carta dei Valori della Rete dei Santuari per Animali Liberi, un santuario o un rifugio, infatti, sono luoghi che ospitano animali cosiddetti “da reddito”, gestiti da un ente nonprofit, per fornir loro ospitalità nel massimo rispetto delle loro esigenze specie-specifiche e senza chiedere agli ospiti alcuna prestazione, sia in termini alimentari, di pet, o di altro genere. Fondamentale anche l’attività di divulgazione dei santuari, che possano così sensibilizzare la cittadinanza anche sulla sorte di tutti gli animali che non hanno avuto la fortuna di essere salvati. Intanto, per gestire la malattia è indispensabile innanzitutto sospendere la caccia ai cinghiali, rimuovere e analizzare ogni carcassa, e limitare la diffusione e il numero dei cinghiali, soprattutto reprimendo e controllando i rilasci illegali di cinghiali in natura da parte dell’uomo per scopi venatori.
Quello che certamente i cittadini possono fare è innanzitutto informarsi sulle attività e situazioni che rappresentano davvero un rischio per la diffusione di patologie e manifestare le proprie scelte nel modo forse più facile possibile: attraverso la spesa. Per chi può, poi, c’è la possibilità di unirsi alla Rete dei Santuari per Animali Liberi, che per sabato 7 ottobre ha organizzato a Milano una mobilitazione nazionale per chiedere il rispetto e la protezione dei rifugi animali.
(Foto di copertina: fattoria La capra campa, Rete dei santuari degli animali liberi)