R-Coat, il progetto che reinventa gli ombrelli rotti

Un progetto di upcycling realizzato nel tempo libero che diventa una professione, un oggetto quotidiano che diventa materia prima: è la storia di R-Coat, il marchio fondato da Anna Masiello, che approda a Milano a Fa’ La Cosa Giusta.

Anna Masiello è piena di idee su come difendere l’ambiente nel quotidiano, magari recuperando materiali che normalmente vanno buttati e che è impossibile riciclare, a cui dare una nuova vita attraverso idee coraggiose. Triestina di origine, trasferitasi a Lisbona nel 2017 per frequentare un corso di laurea magistrale in sostenibilità, appena qualche mese dopo Masiello si imbatté in un video della famosa attivista statunitense Lauren Singer in cui la “influencer ante litteram” della lotta agli sprechi mostrava tutta la spazzatura prodotta nel corso di anni che stava tutta all’interno di un piccolo barattolo di vetro. «Confusa e incuriosita da quel video, che nel frattempo è diventato viraleci racconta Anna Masielloho iniziato a fare ricerche sullo stile di vita zero waste e ho capito subito che quello sarebbe stato il primo passo per rendere la mia vita più sostenibile. Ha cambiato completamente il mio modo di vedere le cose: adesso quando vedo un oggetto rotto o inutilizzabile, non penso “Devo buttarlo” ma mi chiedo come possa essere riutilizzato».

È così che, passeggiando per Lisbona, ha cominciato a vedere ombrelli rotti dappertutto: «C’erano sempre stati, ma non li avevo mai notati, categorizzandoli come rifiuti e quindi non meritevoli di attenzione. Poi io vengo da Trieste, la città della Bora, che di ombrelli rotti ne produce, eppure solo da quel momento ho cominciato davvero a rendermene conto e a pensarci. Mi sono resa conto che, trattandosi di oggetti composti – tra tessuto, metallo, plastica, in alcuni casi legno – non potevano essere riciclati anche perché nessuno divide i vari materiali; e così, siccome all’inizio del mio percorso zero waste mi sentivo molto responsabile nei confronti del mondo intero, ho iniziato a raccoglierli e portarli a casa, pensando che prima o poi ci avrei fatto qualcosa. Nel giro di pochi mesi la mia piccola stanzetta in un appartamento in condivisione con altre sette persone (quindi già di per sé abbastanza affollato) era piena di ombrelli, che tra l’altro essendo rotti non stanno chiusi in ordine».

Così, dopo qualche ricerca online, è arrivata l’idea di realizzare degli indumenti a partire proprio dal tessuto recuperato dagli ombrelli rotti e ammaccati; qualcuno già vi realizzava tote bag, ma ad Anna piacciono le sfide e così decise di creare una giacca. Completamente da zero:

«Non avevo alcuna esperienza in moda o cucito, quindi ho guardato tantissimi tutorial su Youtube e ho comprato una macchina da cucire; ho creato il primo R-Coat [dove coat significa giacca in inglese, mentre la R riprende le cinque R dello zero waste: refuse, reduce, reuse, recycle, repair cioè rifiuta, riduci, riusa, ricicla e ripara ndr]: era un modello molto molto semplice e molto imperfetto che ho realizzato a partire dal tessuto di due ombrelli. Un po’ storto, con un buco sulla spalla e pieno di difetti, ma ne ero molto orgogliosa e l’ho pubblicato sul mio profilo Instagram [Masiello aveva già una pagina ben avviata dedicata allo stile di vita a basso impatto, tutt’ora esistente] e, nel suo piccolo, la foto è diventata virale; ho riscontrato un grande interesse sia tra le persone che volevano il prodotto, chiedendomi se si potesse acquistare, sia soprattutto tra chi voleva evitare che i suoi ombrelli rotti andassero gettati e mi chiedeva se potesse donarli».

È così che hai capito che da quell’esperimento poteva nascere un’attività imprenditoriale?

Anna: «Sì, in quel momento ho capito che questo progetto R-Coat aveva del potenziale, anche perché in Portogallo, come anche in Italia, mancava un servizio di raccolta ombrelli; la gente vuole ridurre il suo impatto, vuole riciclare, ma un ostacolo che incontra è proprio che proprio a volte manca il servizio per farlo. Così, non potendo più accumulare ombrelli nel mio appartamento, ho iniziato ad aprire punti di raccolta in modo del tutto gratuito presso altre attività a Lisbona, come negozi eco-friendly e università, che, una volta raccolti abbastanza ombrelli, mi chiamano e spediscono nel nostro laboratorio; la cosa si è ingrandita e oggi abbiamo punti di raccolta attivi in Portogallo, sia nel nord che nel sud, e in Italia, a partire dalla mia Trieste e poi a Verona, ma presto probabilmente ingrandiremo la rete».

Un’altra spinta importante è arrivata dall’università…

Anna: «Il corso che ho frequentato non mi ha dato una formazione specifica sul business, ma devo dire che tutto – in particolare mi sono specializzata in Economia e Sostenibilità – mi è tornato utile, anche se poi ho approfondito tanto per conto mio. Ho avuto una grande fortuna perché la mia docente di economia, che mi seguiva già su Instagram, non appena ha visto la foto del primo rudimentale R-Coat mi ha scritto: “Vieni nel mio ufficio”. Quando ci sono andata, mi aveva già organizzato degli incontri con imprenditori che conosceva: per me quello poteva essere un hobby e invece lei ci ha visto il potenziale e mi ha aiutata a entrare nei circoli giusti e a farmi conoscere. Ho avuto modo così di entrare in contatto con gli incubatori di start-up che mi hanno aiutata a strutturare il business model e a scalare il progetto».

Così sono iniziati anni fatti di bandi di finanziamento e programmi di accelerazione per start-up, corsi di formazione e preparazione di pitch finali per accedere alle fasi successive di finanziamento. E R-Coat ha preso la forma di un vero e proprio marchio, assieme a una nuova collega, che ha dato il suo fondamentale apporto:

Anna: «Yasmin, che ho conosciuto nel 2019, oggi è l’altra metà di R-Coat ed è complementare a me: mentre io sono più esperta sulla parte di sostenibilità, community e comunicazione online, lei lo è nel branding e nella moda, quando ci siamo conosciute aveva già lavorato come modella e stylist. C’è poi la squadra di sarte di Lisbona a cui ci appoggiamo per la parte di confezionamento vero e proprio: gestiscono in autonomia il lavoro a seconda di quanti capi ci sono da realizzare di volta in volta. La produzione per ora è in Portogallo, anche se in futuro potrebbero esserci novità anche su questo, e vendiamo molto in tutta Europa, ma ancora di più negli Stati Uniti e abbiamo venduto persino a Dubai».

Quali sono i volumi di materia che trattate? Avete un’idea dello spreco evitato?

Anna: «Al momento non sappiamo calcolare in concreto quante emissioni abbiamo evitato grazie al recupero di ombrelli, ma sappiamo che grazie alla partecipazione attiva delle persone abbiamo salvato già quasi 2.300 ombrelli, una cifra favolosa che ci motiva a non mollare, anche se è un lavoro difficile».

Quali sono le difficoltà maggiori?

Anna: «Lo scoglio più grande in assoluto è stato trovare le sarte: abbiamo ricevuto tantissimi rifiuti, perché il progetto è complesso: il tessuto degli ombrelli spesso è rovinato, va tagliato e scontornato con cura, tutto il contrario delle grandi pezzature di tessuto nuovo, in perfette condizioni, liscio con cui le sarte sono abituate a lavorare. Noi mandiamo alle sarte il tessuto lavato e stirato degli ombrelli e sono loro a dover fare un grosso lavoro di puzzle, che prende molto tempo; per fortuna alla fine abbiamo trovato un piccolo atelier diretto da una sarta anziana che ama le sfide e che è l’unica a occuparsi del taglio. Le sue collaboratrici poi cuciono».

Riutilizzate soltanto il tessuto o è possibile recuperare anche gli altri componenti degli ombrelli?

Anna: «Per ora oltre al tessuto che abbiamo utilizzato per anni, la grande novità che portiamo alla fiera Fa’ La Cosa Giusta a Milano – in programma dal 24 al 26 marzo, dedicata interamente agli stili di vita sostenibili – abbiamo iniziato a riutilizzare anche le parti in metallo degli ombrelli, che comunque avevamo sempre tenuto pensando che prima o poi ci avremmo fatto qualcosa. Io volevo realizzare delle lampade, molto minimaliste, ma per ora non ci siamo riuscite; Yasmin invece voleva creare dei gioielli ma, ancora una volta, trovare degli artigiani che accettassero la grossa sfida di un progetto come il nostro sembrava impossibile, così abbiamo accantonato l’idea fino a che l’anno scorso non abbiamo vinto il bando Small But Perfect; è un programma collaborativo: dovevamo trovare un altro team europeo con cui lavorare ed è così che abbiamo incontrato degli artigiani italiani, Altro Sguardo, che hanno incredibilmente accettato. Abbiamo inviato loro alcuni ombrelli, che hanno smistato in base al materiale per capire quali possono effettivamente lavorare. Sono riusciti a realizzare dei gioielli meravigliosi, per ora pochi modelli, che porteremo a Milano per la parte di showcase del programma Small But Perfect, dopo quella di Research & Development e quella di prototipaggio. Porteremo i gioielli assieme ai nostri prodotti e alla nuova collezione».

Quali sono i progetti per il futuro?

Anna: «Abbiamo tanti sogni. Di recente, ad esempio, abbiamo parlato con una designer triestina, Roberta Meola, per partecipare assieme a lei a un altro bando per alzare il livello, spingendoci nell’area del demi couture, quindi qualcosa di molto diverso rispetto a quello che abbiamo fatto fino ad ora. L’idea è quella di arrivare a portare l’upcycling nel mondo dell’alta moda, che in media non è affatto sostenibile. Vogliamo capire quanto possiamo variare la nostra attività, ad esempio sogniamo di entrare nel campo dell’interior design: per ora non ci siamo riuscite, ma in futuro chissà».

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