L’orto come strumento di socialità, per ritrovare un senso di comunità che nello stile di vita contemporaneo può essere difficile percepire. È questa l’idea alla base di Ugorà, un progetto di orticoltura urbana che mette la condivisione al centro, fondato da una manciata di giovani triestini, di nascita o acquisiti. Abbiamo incontrato Sara Sorice e Morena Pinto, due ragazze del gruppo dei fondatori che in questi anni si è ingrandito, abbracciando una varietà di età e provenienze geografiche.
Ci incontriamo in pomeriggio di sole in un caffè nel cuore del parco di San Giovanni, l’area verde dell’ex ospedale psichiatrico simbolo della rivoluzione basagliana, oggi sede universitaria, ma anche di istituzioni sanitarie, di un teatro, di una sartoria sociale e di altri progetti interessanti. Qui, Sara e Morena ci raccontano come è nato il loro progetto, nel bel mezzo della pandemia.
Morena: «L’idea di Ugorà è nata nel 2021, quando io e Jessica, un’altra ragazza – che oggi vive in Estonia e quindi oggi non partecipa più direttamente, ma che è stata fondamentale all’inizio – abbiamo vinto un bando nazionale con un’idea ispirata a progetti analoghi di orti comunitari che già esistevano in altre parti d’Europa, come a Vienna dove all’epoca Jessica abitava. Volevamo, attraverso la creazione di orti rialzati, in vasche di legno o pallet, realizzati e curati con il coinvolgimento degli abitanti del quartiere, dare ai cittadini la responsabilità di gestire l’orto in condivisione, in cui noi, promotori del progetto, fossimo soltanto dei mediatori e l’orto un collante».
Con quest’idea – che su The Good In Town abbiamo già visto applicata in altri casi in Italia – grazie alla vittoria del bando il primo orto è stato realizzato nel cuore di Trieste, nel quartiere di San Giusto, presso il Polo Toti, uno spazio multifunzionale del Comune che ospita diverse realtà tutte dedicate ai giovani. Qui si è inserito Ugorà, cioè Urban Gardening Ora, ma che ovviamente richiama anche il termine greco agorà, letteralmente “piazza”, da non intendersi in senso meramente architettonico e urbanistico, ma innanzitutto sociale, come spazio di socialità, discussione e scambio. A partire da lì si sono uniti nuovi membri, come Sara, e il gruppo si è allargato.
Sara: «Oggi siamo una piccola realtà molto variegata: abbiamo età diverse, provenienze diverse, ma siamo tutti accomunati dall’amore per l’orticoltura, anche se non tutti hanno delle conoscenze; qualcuno di noi ha una formazione scientifica, ma c’è anche chi non ha alcuna esperienza nel campo e impara dagli altri, un po’ per volta. Io e mio marito – che è libanese e in Libano aveva un orto – siamo approdati a Ugorà perché, prima di trasferirci, a Napoli avevamo un orto, e questa passione ci ha seguiti qui quando ci siamo trasferiti, per cui abbiamo subito cercato il modo di coltivarla anche qui a Trieste».
Si coltiva insieme, ciascuno secondo le sue disponibilità di tempo e capacità, e poi si distribuisce tra chiunque abbia partecipato il raccolto, che in questo momento offre gli ultimi cavoli, scarole e cicorie, in attesa di piantare gli ortaggi estivi. In caso di eventi e feste di quartiere anche i cittadini sono invitati a prendersi la loro parte, ma per il momento il desiderio di creare delle cene aperte al pubblico in cui si consumano i frutti del lavoro condiviso resta, appunto, un sogno perché – come spiega ancora Sara – nel momento in cui c’è la trasformazione del prodotto entrano in gioco variabili più complesse, e Ugorà, non essendo per ora altro che un gruppo informale, non ha una propria sede e nemmeno, quindi, una cucina.
L’idea portante, comunque, è quella dell’orizzontalità e della trasversalità, in cui tutti facciano un po’ di tutto – nei limiti delle loro possibilità e disponibilità di tempo – e tutti siano responsabilizzati, mentre i fondatori siano semplicemente un punto di riferimento; inevitabilmente, poi, c’è chi si specializza nelle parti organizzative e chi si dedica invece solo alla cura dell’orto. Attorno agli orti e al gruppetto dei fondatori e delle prime adesioni – lo “zoccolo duro” è oggi costituito da una decina di persone, a cui si aggiungono i frequentatori meno assidui e i semplici curiosi e simpatizzanti – si sono create innanzitutto delle amicizie e, quindi, non solo mani sporche di terra, ma anche serate in compagnia e cene. Ma Ugorà non si vuole limitare a questo. Prosegue Sara: «Vogliamo esportare questo modello in tutti i quartieri di Trieste, dimostrare che facendo cose insieme si può fare rete, si possono creare legami tra le persone che magari prima non si conoscevano».
Dal primo nucleo a San Giusto, intanto, il progetto si è ingrandito ottenendo in concessione altre aree, anche grazie al passaparola; l’interessamento delle ACLI, ad esempio, ha portato Ugorà nel quartiere di San Luigi, su un piccolo appezzamento di proprietà della Curia che fino a questo momento era inutilizzato. C’è poi un orto didattico al boschetto del Ferdinandeo da realizzare con un liceo di Trieste: è tutto pronto ma per il momento è in sospeso per motivi burocratici. Ma i progetti sono tanti.
Morena: «Oggi grazie a un altro bando europeo stiamo realizzando un orto rialzato accessibile, in zona Campanelle, che sia inclusivo per le persone con disabilità; l’aspetto sociale, compreso quello dell’inclusività, infatti, è molto importante per noi, che siamo nati come gruppo informale proprio con un bando che includeva gli anziani, a cui si dava l’occasione di condividere le loro conoscenze con i giovani. Oggi collaboriamo con altre associazioni ed enti del sociale, come le Microaree, che sono realtà tra l’azienda sanitaria, il Comune, l’Ater che hanno l’obiettivo di favorire la comunità e prevenire il disagio sociale nei contesti di quartiere».
Qui, in particolare, l’aspetto sociale è particolarmente importante, perché si tratta di aree cittadine periferiche, in cui non mancano le situazioni difficili, dove un orto può diventare un mezzo per ricostruire o rafforzare le reti sociali, ma anche un modo per prodursi il proprio cibo con poco impegno, tanta soddisfazione e praticamente senza spesa. È anche un modo, poi, per riavvicinare i cittadini, abituati a vivere nel cemento e fare la spesa al supermercato, alla terra, alla produzione alimentare e a capire cosa ci sia dietro.
Come è la risposta della cittadinanza a tutto questo?
Morena: «Stiamo procedendo a piccoli passi. Le istituzioni hanno risposto bene, ma è difficile inserirsi nel territorio da zero: noi esistiamo da due anni, quindi ci vuole tempo per farsi conoscere, per conoscere direttamente le persone del quartiere, per far conoscere e capire il progetto. Per il momento quindi la risposta dalla città è parziale».
Sara: «Il concetto di orto comunitario è estraneo in Italia ed è l’aspetto che facciamo più fatica a far passare: la gente si stranisce quando diciamo “Entrate, prendete quello che volete, date una mano se vi va”. Perché riesce a capire gli orti sociali – ce ne sono alcuni appezzamenti sparsi per Trieste – in cui lo spazio è pubblico, dato in concessione e in affitto dal Comune, ma ciascuno coltiva il suo pezzettino; ma non quello di orto comunitario, in cui è tutto di tutti».
Il paradigma dell’avere ciascuno il proprio orticello è molto radicato a livello culturale e per scardinarlo serve molto tempo.
Quali sono i prossimi progetti in cantiere?
Morena: «Nelle prossime settimane lanceremo una raccolta fondi che ci permetterà di coprire i costi burocratici per costituirci in Associazione, come l’assicurazione».
Sara: «Tra il 19 e il 21 maggio organizziamo un festival, Fiori e Radici, in cui ci saranno concerti, una serata di poetry slam, mostre d’arte, laboratori per bambini e tanti spunti interessanti. Inoltre, siamo stati contattati dall’associazione Invasioni Creative, che opera tra Udine e Torino e realizza fake museum, cioè percorsi per recuperare e valorizzare le periferie, descrivendo arredi urbani come panchine, ma anche furgoni abbandonati, come fossero opere d’arte, in seguito a un laboratorio di scrittura. Vogliono fare tappa a Trieste e ci hanno coinvolti».
Morena: «Parteciperemo poi anche all’organizzazione di alcune feste di quartiere e intanto collaboriamo con la Microarea di Altura, dove è nato un progetto dal basso, dai membri del gruppo informale “Smetto di comprare tutto quello che so fare”. Vorrebbero realizzare un orto dei semplici, con erbe officinali, da usare poi per cucinare e produrre decotti: l’iniziativa è molto bella perché è nata spontaneamente, noi daremo una mano sul lato pratico, ad esempio con la costruzione delle vasche per gli orti. A luglio faremo una pausa per organizzarci meglio, per curare di più la comunicazione e la pianificazione per strutturare i progetti che abbiamo già, dato che dalla nascita di Ugorà a oggi siamo stati immersi in un flusso continuo. Poi per il 2024 vedremo cos’altro fare: le idee non ci mancano».