Nel quartiere Casoretto di Milano, un po’ defilato dalle strade trafficate della città, c’è un laboratorio speciale, dove il lavoro delle macchine da cucire racconta storie di riscatto e di integrazione. La vetrina che si affaccia nella piccola piazza San Materno è quella di Taivè, una sartoria sociale nata nel 2009 come progetto della Caritas Ambrosiana per offrire alle donne rom un’opportunità di emancipazione attraverso il lavoro.
Maria Squillaci, attuale coordinatrice del progetto, racconta che Taivè (parola che significa “filo” nella lingua rom) è un luogo unico, dove chi entra respira la bellezza di un laboratorio in cui regna il sorriso e l’accoglienza: ma che alle spalle ha tante storie di fatiche, soprusi, violenze, superati grazie alla caparbietà e alla perseveranza di numerosi operatori e volontari.
“Inizialmente ci siamo rivolte a donne della Macedonia e del Kosovo che vivevano in campi rom”, ci spiega Maria, “affinché attraverso il lavoro sartoriale potessero emanciparsi e uscire da quella cultura patriarcale che le teneva quasi prigioniere”. Senza un lavoro e con una conoscenza dell’italiano pressoché nulla, non avevano alcuna prospettiva di sviluppo personale né di inclusione.
Da anni la Caritas Ambrosiana è impegnata nel supporto socioeducativo delle famiglie rom, sia per superare gli stereotipi che portano alla ghettizzazione, ma soprattutto per raggiungere una integrazione costruttiva. Concentrarsi su queste donne non è casuale, poiché all’interno delle loro comunità sono le custodi della famiglia e portatrici di valori come la cura e la resilienza. Aiutarle ad apprendere nuove competenze significa offrire la possibilità di uscire dall’isolamento e contribuire in modo significativo al benessere della propria famiglia.
Dal recupero nasce il lavoro e l’autonomia
Maria ci racconta che dopo qualche anno Taivè ha ampliato la sua missione, accogliendo anche donne di altri paesi vittime di tratta e di violenza: grazie all’aiuto di numerose volontarie, tutte queste donne hanno imparato a cucire, rammendare, stirare, fino a realizzare dei lavori di sartoria su commissione e a consolidare i servizi di riparazione sartoriale. “Alcune donne sapevano già lavorare con ago e filo”, ricorda Maria, “ma nel laboratorio hanno consolidato o sviluppato la loro conoscenza, e soprattutto hanno progressivamente raggiunto una emancipazione insperata”.
L’obiettivo del progetto è infatti quello di generare un impatto positivo a lungo termine: le donne coinvolte seguono percorsi di apprendimento sartoriale e linguistico. Nello stesso tempo acquisiscono competenze trasversali come la puntualità, la continuità nell’impegno e la gestione delle responsabilità, fondamentali per un inserimento stabile nel mondo del lavoro.
In questi anni la realtà di Taivè è cresciuta, non volendo essere soltanto uno spazio di formazione e integrazione sociale: l’apertura del negozio è stata voluta per raggiungere l’autosufficienza dal punto di vista economico, per conseguire quella stabilità finanziaria che consenta di coprire parte delle spese di gestione. “Di solito cerchiamo di partire con un tirocinio di alcuni mesi”, aggiunge Maria, “che a fronte di un esito positivo diventa un’assunzione”: per le donne si tratta di un passaggio pressoché inedito. Infatti, per la maggior parte delle quasi 50 donne che nel corso degli anni hanno partecipato al progetto, questo impiego ha rappresentato la prima esperienza professionale in assoluto.
La parola “recupero” è da sempre una costante per Taivè, sia nella sede precedente, che ancor più nella nuova in piazza San Materno: quasi tutti i prodotti esposti sono stati realizzati con tessuti di scarto, ricevuti attraverso il passaparola ma soprattutto dalla generosità della gente.
“Sono davvero tanti gli episodi di persone che sono venute a portarci dei tessuti affinché noi li potessimo riutilizzare per creare nuovi prodotti artigianali e pezzi unici”, ricorda Maria: “facciamo del vero e proprio upcycling, riducendo gli sprechi e praticando l’economia circolare grazie alle abilità di cucito delle nostre donne”. A ogni singolo pezzo di stoffa viene dato valore ed entrando nel negozio si scoprono borse, astucci di stoffa, shopper, portaoggetti, e molti altri accessori colorati (come le vivacissime mascherine nel periodo della pandemia), dove ogni filo racconta una storia. E in questo periodo può offrire tante idee interessanti per regali originali e non banali.
Superare le barriere verso una reale integrazione sociale
Oltre al lavoro diretto con le donne che vengono aiutate, l’attività Taivè è anche nel sensibilizzare la comunità locale e milanese più in generale sul valore dell’inclusione e sulla necessità di superare i pregiudizi. Oltre alle operatrici e alle numerose volontarie che prestano il loro servizio, si è creata una straordinaria relazione con la vicina parrocchia Santa Maria Bianca della Misericordia e l’intero quartiere. “Quella di Casoretto è un’area che conserva un forte legame tra le persone”, racconta il parroco don Enrico Parazzoli, “dove la gente si conosce e si incontra: dato che molte parrocchiane davano una mano a Taivè, è stato naturale costruire un rapporto di affetto e di stima con questa realtà”.
Infatti, ci sono state numerose occasioni di incontro e di conoscenza, dall’organizzazione di un convegno sull’inclusione al dedicare momenti per la presentazione e la vendita dei prodotti. Va pure sottolineata la collaborazione con l’Università Cattolica, le scuole e le istituzioni locali che, attraverso eventi e laboratori di vario tipo, ha lo scopo di promuovere una cultura dell’accoglienza e della conoscenza reciproca.
Usando una parola forte, per molte donne non è stato facile diventare “imprenditrici di sé stesse”, poiché è stato prima necessario affrontare un lungo percorso per far crescere l’autostima e vincere molte resistenze, a partire dallo stesso ambito familiare.
Perciò Maria sottolinea che il successo di Taivè non va misurato solo in termini economici: ogni donna che acquisisce nuove competenze, che ritrova fiducia in sé stessa e che riesce a uscire dalla marginalità rappresenta una vittoria per l’intera comunità. La risposta positiva del quartiere conferma che il percorso dell’integrazione è possibile e può solo portare risultati positivi: così come la cooperazione con altre realtà, come ad esempio le cooperative Vesti Solidale o Di Mano in Mano.
Don Enrico non fa che rafforzare quanto detto, ribadendo le buone relazioni che si sono sviluppate: “oltre al valore umano e sociale molto forte, le loro realizzazioni sono proprio belle; poi, da quando c’è il negozio nuovo, la presenza delle donne che ci lavorano è ancora maggiore”.
Questo l’ho fatto per sua moglie
La mia piacevole chiacchierata con Maria Squillaci è durata un’oretta, in cui ammirare tutti gli oggetti esposti in vetrina e all’interno del negozio, ma soprattutto fare la conoscenza di Deepika, che usciva a salutare chiunque si fermasse davanti alla vetrina, e Fawzia, impegnata a lavorare dietro alla macchina da cucire. Dopo un caffè con Maria nel bar limitrofo mi apprestavo a congedarmi quando Fawzia si è avvicinata porgendomi un piccolo astuccio, utile per tenere bancomat e le carte fedeltà della spesa: “mentre voi parlavate”, ci ha detto la sarta con un timido sorriso, “ho preso degli scampoli di tessuto e ho realizzato questo per sua moglie”.
Sia io che Maria ci siamo commossi di fronte a un gesto tanto semplice quanto ricco di attenzione e sensibilità: Taivè è davvero un luogo magico, dove un filo sottile può trasformare le vite di tante persone.