Il problema della lana

La lana non è la più sostenibile, nè la più etica tra le fibre tessili, ma del lavoro su questo fronte può essere fatto, ad esempio non sprecando quella delle pecore italiane e riciclando

Traspirante, isolante, morbida e calda: la lana è un materiale molto performante per il settore tessile. Purtroppo, a questi lati positivi, che ne fanno una fibra di grande qualità per l’abbigliamento invernale, se ne oppongono altrettanti di meno belli. Su questo materiale le considerazioni da fare sono diverse: da un lato quelle connesse alla sostenibilità, dall’altro l’etica. E nessuna delle due è semplice da sbrogliare.

Un materiale sostenibile. O no?

Quanto alla sostenibilità, di per sé la lana sarebbe una fibra piuttosto ecologica: tosatura, pulitura, cernita, cardatura, filatura, tessitura e finissaggio hanno un impatto ambientale basso, ad eccezione del lavaggio della lana che può avere effetti sull’ambiente anche molto diversi a seconda dei detergenti utilizzati, oltre alla quantità d’acqua. Le fibre di lana, inoltre, si biodegradano nell’ambiente al pari del cotone, confermandosi un’opzione relativamente ecologica, almeno da questo punto di vista; bruciarla, come spesso viene fatto, invece, è sicuramente peggio.

Tuttavia, la lana non può essere considerata un materiale sostenibile se le pecore da cui proviene sono allevate in maniera intensiva, per quantità prodotte nell’ordine delle tonnellate, con tutto il consumo di terreno e risorse che questo comporta; si aggiungano, poi, le emissioni: si calcola, infatti, che a livello globale l’allevamento ovino-caprino impatti per il 6,5% delle emissioni di gas a effetto serra totali, una cifra minore rispetto ad altre specie, ma comunque importante. Specialmente se la lana non è – come sarebbe logico aspettarsi – un “effetto collaterale” di altre produzioni che coinvolgono le pecore, come quella di latte, ma è importata dall’altra parte del mondo. Succede proprio questo: in Italia la lana di 8 milioni di pecore, allevate per fini caseari e produzione di carne, è inutilizzata.

Gli allevatori non sanno cosa fare della lana appena tosata che deve ancora essere lavata, anche perché non ci sono strutture adatte dedicate al lavaggio di piccoli e medi quantitativi. Alcuni provano a conservarla, mentre altri sono costretti a smaltirla (pagando) perché, se non lavata, per la normativa vigente si tratta di un rifiuto speciale. Un tale spreco non può essere considerato né etico né tantomeno sostenibile, quando questa risorsa – opportunamente trattata – potrebbe essere usata non solo nel tessile ma anche in altri comparti, bioedilizia inclusa. E invece viene gettata e spesso bruciata, dovendone così importare per un valore pari a quasi 50 milioni di dollari (dato del 2020) dalla Nuova Zelanda, il maggiore produttore mondiale, non esattamente dietro l’angolo, con l’impatto ambientale del lungo trasporto che si somma a quello causato dall’allevamento.

Esiste la lana etica?

Sul piano strettamente etico, il problema della lana è globale e l’immagine di candide, allegre pecorelle che vengono tosate per il loro stesso bene – le pecore come le conosciamo oggi sono state selezionate in modo tale da produrre lana a oltranza, fino anche a non reggerne il peso – è purtroppo poco corrispondente alla realtà. Già da anni, ad esempio, il celebre marchio di abbigliamento per il trekking Patagonia – di recente salito agli onori delle cronache per la decisione del fondatore di cedere i proventi non utilizzati alla difesa del Pianeta – ha smesso di acquistare lana per le proprie produzioni dal marchio Ovis 21, fino a quel momento ritenuto etico, a seguito della scoperta di metodi ben poco attenti al benessere animale. Una pratica crudele oggi piuttosto nota è il cosiddetto mulesing, che consiste nel rimuovere dal corpo dell’animale (vivo) intere strisce di pelle per evitare i danni che insetti, larve e uova deposte nel pelo possono provocare alla lana e all’animale stesso. Per questo oggi diverse etichette si fregiano della dicitura “mulesing-free”, che garantisce che questa barbarie non sia stata praticata, anche se non è detto che si tratti di lana cruelty-free in senso stretto.

Certo è vero che le pecore oggi esistenti continuano a produrre lana e di essere tosate hanno effettivamente bisogno: farlo nelle modalità e nei tempi rispettosi della loro natura, e senza far loro del male farebbe necessariamente lievitare il costo del filato e, quindi, del prodotto finito. Si pone, quindi, una volta di più, il dovere di cambiare i nostri modelli di consumo, anche per quanto riguarda l’abbigliamento e lo shopping, accettando che certi materiali costino tanto, e di conseguenza trattandoli con cura e facendoli durare.

Recuperare e riutilizzare le parole d’ordine

Nel dubbio, meno capi, di maggiore qualità e meglio tenuti è quindi sempre la formula vincente, la stessa alla base dello slow fashion. Senza dimenticare le opzioni vintage e di seconda mano, che permettono di acquistare abbigliamento anche in lana – e quindi molto performante, perfetto per l’inverno – ma senza supportare direttamente un comparto a oggi non ai vertici della sostenibilità e nel quale può essere anche molto difficile orientarsi verso le opzioni più etiche. Basti pensare che ogni anno in Europa 6 milioni di tonnellate di abiti finiscono in discarica e che l’attuale scarto tessile potrebbe coprire il fabbisogno di indumenti per i prossimi vent’anni.

Fortunatamente, oggi le scelte sono varie: sempre più marchi, ad esempio, utilizzano lana riciclata o rigenerata, molti piccoli artigiani e sarti impiegano tessuti di recupero, avanzi di grandi firme del fashion rimasti inutilizzati e salvati, così, dal macero. La lana etica, potremmo dire, è quella che non viene prodotta ma recuperata. Si tratta di un modo per evitare gli sprechi, impiegando materiali anche di alta qualità e gradevolezza estetica, con tutte le caratteristiche della lana nuova ma, per molti versi, migliori.

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