La Copenhagen Fashion Week (CPHFW), riconosciuta per i suoi sforzi volti a promuovere la sostenibilità nel settore della moda, ha recentemente ricevuto una denuncia formale per greenwashing, presentata dal Consiglio dei Consumatori danese e la società Continual. In base alle accuse sette marche partecipanti alla settimana della moda avevano fatto affermazioni ingannevoli sulla sostenibilità durante l’evento, disattendendo il Piano d’Azione per la Sostenibilità nel 2020 della CPHFW, che include un insieme di standard minimi che le marche devono rispettare per partecipare all’evento. Questi standard coprono aree come direzione strategica, design, materiali, condizioni di lavoro, coinvolgimento dei consumatori e produzione degli spettacoli.
La vicenda non stupisce più di tanto: l’industria della moda è da anni al centro della transizione sostenibile, messa alle corde da fenomeni con il fast fashion, lo sfruttamento dei diritti umani, i rifiuti tessili e una forte propensione (più forte che in altri settori) al greenwashing.
Abbiamo chiesto un commento alla vicenda e parlato di come si evolve il settore anche alla luce delle normative, con Francesca Rulli, cofondatrice di Ympact, una piattaforma tecnologica che aiuta le imprese, nel settore della moda e del lusso, a misurare i propri impatti ambientali e sociali, a identificare priorità di azione per il miglioramento delle proprie performance di sostenibilità. Ympact supporta attualmente oltre 3.000 aziende, collabora con più di 50 brand globali e mappa oltre 80.000 fornitori in 22 Paesi.
Francesca, cosa ne pensa di questo ultimo caso di greenwashing?

“Negli ultimi anni sono stati costruiti tanti elementi di certificazione, di rendicontazione o anche di immagine. È il caso di alcuni eventi sostenibili molto orientati al marketing ma non necessariamente agganciati alla sostanza, a una strategia chiara, a progetti implementati, a riduzioni di impatto concrete di tipo ambientale e sociale. Quindi non mi meraviglia il tema di Copenaghen. Non perché Copenaghen sia un evento non sostenibile ma perché probabilmente, per costruire un qualcosa che si posizionasse come sostenibile, si è perso di vista il vero obiettivo di questa materia, che chiede di analizzare gli impatti e ridurli cambiando il modello di business, cambiando il modello di produzione, cambiando lo schema che si è seguito fino a poco prima.
In questo senso io vedo il recente Pacchetto Omnibus della UE come un insegnamento positivo, una chiara identità della strada che dobbiamo percorrere. Ci dice che nell’ambito della moda dobbiamo fare progetti concreti (di decarbonizzazione, controllo di filiera o altro) che abbiano una concreta riduzione di impatto ambientale e sociale. Progetti strutturati, non occasionali. Il che significa anche modificare il modello di business, perché altrimenti diventa impossibile ridurre il proprio impatto nel medio-lungo termine”.
Ha toccato una nota dolente, sul Pacchetto Ominibus ci sono opinioni molto critiche…
“Ho sentito molti commenti spaventati: c’è chi teme che sia un passo indietro. Ripensando però alla storia del settore moda in Italia negli ultimi 10 anni, almeno per quello che abbiamo vissuto con il nostro percorso, il vantaggio competitivo nasce dalla spinta imprenditoriale consapevole, dagli investimenti in riduzione di impatto, non da burocrazia e sanzioni. Se fossimo passati a un approccio di mera conformità ai dettami di legge, avremmo rischiato un appiattimento della transizione sostenibile, stimolando forse anche la ricerca di facili compromessi. Anche se vengono meno alcuni adempimenti, una parte di mercato ha capito che l’implementazione di strategie di sostenibilità è una chiave per ottimizzare le risorse, conquistare un vantaggio competitivo e proteggere il proprio business. Ed è una parte che andrà avanti con forza in questa direzione. Perciò ritengo che questi cambiamenti non indeboliscono l’impegno green, anzi. Stiamo passando da una logica di mero adempimento a una di vera intelligenza strategica. Lo stesso caso Copenhagen lo dimostra, il fatto che una serie di iniziative della moda – e non solo della moda – siano state additate di greenwashing va nella stessa direzione del pacchetto Omnibus: un ripensamento in cui si cerca di tornare alla concretezza della sostenibilità”.
Come abbiamo avuto modo di dire, il Pacchetto Omnibus approvato recentemente dalla Commissione UE (e, ricordiamo, non ancora definitivo e in vigore), ha introdotto novità significative prima di tutto sulle soglie di rendicontazione stabilite dalla CSRD. D’ora in poi, solo le aziende con un fatturato superiore a 50 milioni di euro e più di mille dipendenti saranno obbligate a fornire report di sostenibilità dettagliati. Questo ha ridotto dell’80% il numero di aziende obbligate alla rednicontazione CSRD. Per le imprese appartenenti alle “wave 2” e “wave 3”, che dovevano iniziare gli adempimenti tra il 2026 e il 2027, è prevista una sospensione temporanea di due anni. Inoltre, la direttiva sulla due diligence (CSDDD) prevede un alleggerimento dei controlli, con una dilazione dei termini e un focus principalmente sui fornitori diretti.
“Mutano gli adempimenti soprattutto per le piccole e medie imprese, – continua Rulli, “che sarebbero state chiamate a un cambio di passo troppo oneroso e solo orientato alla compliance, disperdendo capacità di investimento in progetti concreti. Mi spiego meglio. Per una Pmi, le risorse sono limitate e la capacità dell’imprenditore sta nell’investire nella creazione di impatto positivo, per poi rendicontare e comunicare. Se anteponiamo la rendicontazione e appesantiamo gli adempimenti burocratici, togliamo spazio alla strategia di impresa e all’investimento nell’innovazione di prodotti e processi; ma è proprio l’innovazione che porta un ritorno in termini economici e di vantaggio competitivo”.
In questo quadro di incertezza legislativa, quali sono secondo voi i punti fermi, la bussola per il sistema moda?
“Se CSDDD e CSRD vanno incontro a vari cambiamenti, gli altri due pilastri fondamentali della strategia del mercato rimangono intatti: il regolamento Ecodesign, che introduce il passaporto digitale di prodotto – partendo da tessile, batterie, elettronica ed edilizia – e il regime di responsabilità estesa del produttore (EPR), già legge in Italia dal 2022. Il tutto va letto in chiave strategica, come orientamento del modello di business a un miglior vantaggio competitivo. L’impresa che innova prodotti e processi, investe sul capitale umano e sulla relazione con gli stakeholder acquisisce posizionamento, reputazione e affidabilità e può portare questi elementi di vantaggio sul suo prodotto anche attraverso il Passaporto digitale. Quest’ultimo sarà determinante, perché offrirà garanzie attraverso dati verificabili e oggettivi. Soprattutto, contribuirà oltre alla circolarità, anche all’educazione del consumatore, permettendo di valutare informazioni importanti sul prodotto, fino a elementi del profilo ambientale e sociale. Lo aiuterà a scegliere consapevolmente chi premiare con i propri acquisti. Una rivoluzione che va oltre la semplice riduzione di impatto, trasformando la sostenibilità in uno strumento di competitività e innovazione”, conclude Rulli.